Blah. Blah. Blah.

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MILA

Scendo dal taxi e attraverso il portone del palazzo. Dentro lo specchio dell'ascensore prendo coscienza della mia immagine. Indosso la gonna grigia che ho comprato l'anno scorso con mia madre, ha la vita alta e a tratti mi spezza il fiato. Il pullover celeste scelto da Sara si appoggia morbido sulla curva del seno. Infilo una mano nella borsa, cerco l'iPhone, devo mandarle una foto e scriverle che ha fatto bene a saltare l'esame e che quando potrò permettermelo la ripagherò per la cura con cui si ostina a volermi consolare. Una cover bianca mi balugina tra le mani mostrando a chiare lettere l'espressione che usa quando le parlo del mio lavoro.
Blah. Blah. Blah.
Deve averla agganciata al telefono mentre ero in bagno. Le porte si aprono, alzo gli occhi e varco la soglia dell'ufficio con una nuova determinazione. Saluto Carlotta che dal front-office allunga il collo oltre il bancone per farsi vedere. Sento la voce di Marco provenire dal corridoio, cerco rifugio nel mio piccolo spazio vitale, non voglio vederlo, non ancora. C'è una strana euforia dentro il mio torace, devo mettermi al lavoro, mi sono rimaste parecchie telefonate da fare e, come prima cosa, voglio controllare la pratica che mi ha assegnato l'avvocato Bollani. È il più anziano dei soci, non usa grandi evoluzioni verbali per farmi capire che gli piace come lavoro, ma lascia intendere chiaramente che si fida di me. Accendo il pc e inizio a riepilogare dati, le ore mi passano tra le mani senza darmi il tempo di pensare ad altro. Lavoro solo lavoro, mi manca così poco per chiudere il primo cerchio di fatiche che la felicità mi appare finalmente una scelta possibile. Bollani rientrerà da Roma nel primo pomeriggio, voglio fargli trovare tutto sulla scrivania. Guardo l'orologio, è passato da poco mezzogiorno ma ho ancora tempo. Apro il cassetto, sposto ripetutamente l'agenda, le teche, ma qualcosa non mi torna. Mi mancano dei documenti, sono sicura di averli lasciati qui. Chiedo a Carlotta che non ne sa nulla, provo allora con Patrizia che, dopo una lunga pausa, ammette di averne parlato con Marco la sera prima, di essersi resa disponibile a cercarli mentre lui avanzava spedito verso il mio ufficio. Mi alzo di scatto, irritata e spazientita, afferro l'iPhone indecisa sul da farsi, ma poi è la frustrazione ad avere la meglio e attraverso il corridoio. Ogni passo è un cenno a me stessa, alla mia capacità di decidere ed eseguire. L'immagine di lui, ieri, affiancato da un'altra donna mi assilla. Non devo assecondare il demone, devo solo riprendere i documenti che mi servono, ripescare me stessa da quelle mani inopportune, rimettere in sesto la mia dignità. Spalanco la porta senza bussare, è al telefono, mi fa cenno di entrare, prova a non guardarmi, ma non ci riesce, gli sfugge una pausa di troppo, gli occhi mi cercano i fianchi.
Lo affronto senza astio e senza furia, perché ogni spasmo scompare, il solo vederlo ancorato alla scrivania mi rende indifferente, è come se per la prima volta non provassi più nessuna paura e questa consapevolezza mi lascia senza parole. Non abbiamo nulla da spartire, mi è così chiaro ora che finalmente riesco a tenere a bada l'ansia. Distoglie lo sguardo riprendendo a parlare, si congeda in fretta dall'interlocutore e riattacca. Quando mi guarda di nuovo, lo fa senza l'accenno di un sorriso, si piega verso la cassettiera, estrae una teca e me la porge con sufficienza.
«Cerchi questa?».
Mi avvicino di qualche passo, non supero il limite che mi sono imposta. Ha lanciato un amo per riprendermi, usa il lavoro per riportarmi indietro, per farmi oscillare tra la convinzione di voler scegliere autonomamente e l'evidenza di non poterlo fare.
«Non capisco perché ti ostini a mettere mano a quello che faccio».
«Dovresti essermi grata».
Respiro sotto la compostezza del suo sguardo sicuro. Giro attorno alla scrivania, l'iPhone mi scivola di mano, sbatte a terra senza fare rumore. È Marco a piegarsi in avanti, a sollevarlo da terra e rigirarselo tra le mani.
Blah. Blah. Blah.
Leggo quelle parole non pronunciate, inquadro le labbra tirate dentro un sorriso maldestro e uno spasmo scansa lo stomaco, il vuoto si fa strada, barcollo appena, ma non se ne accorge. Gli sfilo dalle mani la cartella, il telefono e, rapida, mi muovo dentro una vergognosa ritirata.
«La pratica è incompleta. Se la consegni a Bollani non ci fai una gran figura».
Mi fermo a un passo dalla soglia e mi volto. Gli leggo negli occhi una nuova determinazione.
«La perizia grafologica è in archivio. Ti suggerisco di andarci ora, prima ero al telefono con l'avvocato, sarà qui tra dieci minuti. Dieci minuti sono più che sufficienti, non credi?».
È in piedi, con la schiena un po' rigida, mi fissa senza battere ciglio. Non gli rispondo, esco sbattendo la porta. Le scale per l'archivio sono davanti al suo ufficio, non mi lascio neppure il tempo di pensare, accendo la luce e i neon scaricano la tensione dentro un sibilo. Il faldone è visibile dalla porta, qualcuno lo ha messo appositamente al centro del ripiano vuoto, è lì perché deve essere visto, è lì perché è dove devo arrivare. Afferro la pratica con entrambe le mani, il respiro mi muore in bocca perché so già cosa sta per accadere, mi volto per andarmene, ma il rumore della porta alle mie spalle risponde alle attese. Il branco ha annusato l'aria e mi ha raggiunta, il branco è pronto a sbranare. Marco è appoggiato allo stipite, mi guarda con la lucidità di chi non deve prendersi il tempo per programmare niente.
«Ti sono mancato?».
Ha l'aria angelica e un sorriso che gli scompone di poco l'espressione. La giacca nera dalla linea asciutta ne disegna i confini. La cravatta mostra un nodo più morbido del solito, i capelli biondi sono in ordine come sempre, ma la smorfia che gli muove le labbra tradisce un'impazienza che poche volte gli ho visto addosso.
«Fortunatamente ho avuto altro da fare» rispondo.
È inutile, lo so, è questa situazione di noi due chiusi qui, all'oscuro di tutti e con ottime probabilità che qualcuno ci scopra, è questo che ci fa impazzire. Non c'è altro. Non c'è condivisione, non c'è sentimento.
Mi avvicino alla porta e cerco di passare oltre, di scansare il languore che mi muore in gola. Sento il suo fiato che si addensa e la lingua che si muove in uno schiocco. Non faccio in tempo ad avanzare di un passo che mi ha già spinta verso gli scaffali. Sbatto la fronte contro il ripiano ma non è il dolore quello che sento, il tormento ribalta ogni sensazione. È dietro di me, sposta la maglia e con una mano mi sfila il capezzolo dal reggiseno, lo stuzzica, il mio corpo risponde, si tende e la morsa di piacere affonda il suo colpo. Capricciosa finisco sempre per farmi coinvolgere dalla sua ferocia. Volto la faccia nella sua direzione e cerco la bocca, è inutile non riesco a resistere. Provo a spostarmi ma mi tiene ferma con una mano mentre con l'altra prova a sollevarmi la gonna. Trattengo a stento il respiro, apro le gambe, lo assecondo, mi sposta il perizoma e le dita si insinuano rapide. Mi giro di colpo facendolo barcollare, lo bacio afferrandogli la cintura, sento la sua erezione che spinge contro la coscia. La bocca disperde l'aroma del caffè. Ha le palpebre contratte, come se si stesse concentrando su qualcosa di incomprensibile.
«Voltati!».
Provo a tenergli testa, a bloccargli i movimenti, ma anticipa ogni mossa e mi afferra il polso, lo stringe fino a farmi male, mi fa voltare di nuovo verso lo scaffale. Dovrei essere più presente a me stessa, non dovrei chiudere gli occhi, perdermi. Li riapro, giro la testa di lato, lo cerco. Tento sempre un'ultima volta prima di venire sommersa dall'umiliazione. «Apri gli occhi, guardami» sussurro.
«Dovevo mettertelo in bocca. Almeno stavi zitta».
La testa si blocca e il corpo per la prima volta percepisce l'ostacolo. Come dentro a un riflesso ritrovo la luce.
Non veglierà il tuo sonno. Non ti concederà ascolto. Non correrà per evitarti di scappare. Non verrà a cercarti. Non ti riporterà a casa.
Un nodo mi preme sul ventre, si scioglie, cola insieme al suo involucro pesante, come cera si rapprende e diventa duro. Non è la sua voce ma è l'intenzione. Qualcosa nella modalità mi scuote al punto da far confluire tutti i pensieri dentro un gesto inizialmente goffo, poi tutto d'un tratto deciso e violento. Afferro il ripiano con entrambe le mani e mi spingo indietro furiosa. Lo scaravento a terra e non mi sembra vero di esserci riuscita. L'ho scacciato come un intruso.
Faccio scorrere la gonna lungo le cosce e cerco di sistemarmi in fretta. Prendo la cartella che era caduta e mi dirigo verso la porta voltandomi appena.
«Cerca di non confonderti. Sono qui per lavorare, tutto il resto non mi riguarda più».
E, trattenendo a stento l'affanno, risalgo in fretta le scale con la precisa intenzione di non voltarmi più.

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