Quindici

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MILA

C'era la sua giacca appoggiata alla sedia, la mia borsa ai piedi del letto, poi il buio, un buio strano, imperlato dalla luna che entrava dalla finestra e si allungava a terra. Ho guardato fuori, il profilo scuro del suo corpo si muoveva in lontananza. Camminava svelto, la testa piegata, la camicia aperta, mi sono rimessa a letto nella piena consapevolezza che non stava andando lontano. Per la prima volta mi era parso di capirli i suoi passi, uno ad uno, e di avergli regalato qualcosa di inspiegabile, qualcosa che non conoscevo affatto.
Ho finto di dormire quando è rientrato e anche quando si è sdraiato al mio fianco. Credevo mi avrebbe abbracciata e invece non l'ha fatto, è rimasto fermo nella sua posizione, di spalle, in quella zona d'ombra che i miei occhi non riuscivano a vedere. Adesso è mattina, percorro tutto il perimetro della stanza, il suo corpo riposa muto, immobile. Sento dei passi in corridoio, sono certa sia mia madre che scruta la soglia in attesa di un segnale, che cerca una scusa per entrare. Bussa, ma fingo di non sentire, i tacchi allora si allontanano, forse rinuncia, forse no. Sfioro il vetro della finestra, gli operai fendono l'aria, spostano tavoli, accatastano sedie. Vorrei poter debellare ogni intrusione e continuare a vivere qui, in questo luogo senza tempo, tra queste pareti che sembrano roccia invalicabile. Mi sdraio di nuovo dentro l'impronta delle lenzuola. Lo sento tossire, mi volto, si strofina gli occhi con la mano, mi guarda.
«Buongiorno».
Rimuovo ogni pensiero, non voglio rovinare tutto un'altra volta.
«C'è mia madre che sta origliando».
Si avvicina sorridendo, il suo corpo aderisce perfettamente al mio.
«Se le fai sentire che sei viva magari si allontana».
Mi bacia il collo, si insinua con la mano tra le gambe.
«Troveremo mai pace, noi due?», ansimo mentre provo a trattenere l'insistenza delle sue braccia.
«Non ne vedo il motivo».
Scardina la presa e mi sale sopra bloccando ogni movimento. Sento la maniglia muoversi, la porta scricchiolare, qualcuno sta provando a entrare e, nonostante la serratura chiusa, il legno sbatte più volte contro gli stipiti. Bussano un'altra volta e questa volta la voce di mia madre scivola oltre la soglia, insistente.
«Mila? Tutto bene?».
La testa di Dominique crolla sul cuscino. Alzo gli occhi al cielo, mi sollevo dal letto, pesco una maglietta dalla valigia e me la metto addosso. I passi scivolano sul pavimento freddo senza emettere alcun suono, mia madre continua a chiamare, non ha nessuna intenzione di mollare la presa. Faccio scattare la serratura e mi affaccio senza aprire del tutto, concedendole soltanto una fetta della mia immagine sgualcita dal sonno.
«Stavo dormendo».
Appoggia un palmo alla porta, spinge ma tengo salda la presa, non la lascio entrare.
«Ieri sera non ti ho più vista e adesso è già tardi. Vuoi mangiare qualcosa?».
Prova a sbirciare, allunga il collo, sposta in fretta gli occhi, sbuffa.
«Scendo io tra un attimo».
Mi guarda seria, cerca di tenere a bada la curiosità, il nervosismo e poi d'improvviso, senza che nessuna delle due abbia il tempo di rendersene conto, veniamo liberate dall'intralcio della porta. La mano di Dominique scende rapida sul mio collo, il suo profilo occupa la visuale di entrambe. Con la coda dell'occhio lo intercetto, indossa i pantaloni ma è a torso nudo. Mia madre lo guarda, con le mani si aggrappa alla borsetta che porta appesa al collo e proprio non ce la fa a non considerarlo in tutta la sua interezza, sposta gli occhi dalle spalle al bacino imbarazzata.
«Signora Gori, la responsabilità è tutta mia. A questo punto credo sia colpa del jet lag che mi porto dietro da troppo tempo, non dormo io e non faccio dormire gli altri. Le chiedo nuovamente scusa».
Il rossore sulle guance della donna che arretra di un passo verso il corridoio è spiacevole tanto quanto il suo sguardo scandalizzato.
«Tuo padre è giù che aspetta».
Seguo con lo sguardo il profilo che si allontana, non ce l'ho il tempo di trovare una soluzione per cancellarle di dosso il disagio, perché vengo trascinata dentro dai gesti bruschi di Dominique, dalla foga con cui chiude la porta al mio fianco. Mi spinge contro la parete liberandomi dalla maglietta. Con un rapido movimento del polso riesco a far scattare la serratura e avverto, nitida, la sua risata sulla pelle.
«Temi che possa tornare?».
«Meglio non rischiare».
«E invece dovresti rischiare più spesso».
Affonda le mani sul seno, mormora oscenità, si spoglia un'altra volta.
«Potremmo avvicinarci alla finestra. Potrei scoparti lì. Tenerti aperte le gambe e leccartela davanti a tutti».
«Non ci pensare nemmeno».
Mi solleva da terra e attraversa la stanza.
«Mettimi giù!».
«Se urli così ci sono ottime probabilità che ci raggiunga anche tuo padre».
Fa il giro del letto, vedo il piazzale oltre il vetro, mugolo nel tentativo di fermarlo quando all'ultimo momento si volta di nuovo e mi butta tra le lenzuola.
«Credevi veramente che ti avrei divisa con quell'orda di operai lì sotto?».
«Te l'ho già detto che sei odioso e prepotente?».
Mi imprigiona con tutto il peso del corpo, mi morde il mento e poi sale verso la bocca.
«Sì, e io te l'ho già detto che sei bellissima?».
Sorrido mentre mi bacia di nuovo.
«No».
Alza la testa e mi guarda.
«Bella e bugiarda».
«Arrogante e dispotico».
Mi volto di scatto a pancia in giù, provo a spostarmi, ma la sua presa è forte. Con la lingua mi attraversa le natiche, afferra le cosce e le stringe fino a farmi male. Scorre un dito sul clitoride e inizia a giocarci. Mi libero da ogni tensione, ammorbidisco la postura, gemo nella certezza che sono ancora in tempo, posso ancora sottrarmi al desiderio, ridere e piangere della sua presenza, sparire, far perdere ogni traccia. Invece scosta la mano e mi trattiene, torna indietro e mi sfiora, delicatamente, più volte e, come se lo riconoscessi solo allora, come se in realtà non stessi aspettando altro che un cenno del suo corpo per perdere completamente l'autonomia del mio, allargo le gambe e spingo indietro la schiena. Si lascia attraversare da quel gesto, dalla potenza della richiesta e, senza perdere minimamente il contatto con la mia presenza così fragile e inconsistente, mi afferra i fianchi con entrambe le mani e inizia ad affondarmi nel corpo, lentamente, concedendomi il tempo di accoglierlo, di farmi sconvolgere i sensi. Seguo i suoi movimenti, lo assecondo, mi sovrasta, sposta le mani sul seno, tira i capezzoli e scende di nuovo, sfiora i tessuti con piccoli movimenti circolari. Non trattengo più il piacere, scivolo con la testa tra le lenzuola, soffoco i gemiti, mentre si riversa nel mio corpo e spinge fino a riempirmi completamente del suo delirio.
Impiega una tale delicatezza nel sollevarmi e farmi scivolare di lato che mi volto per guardarlo come se mi svegliassi da un sonno profondo. Pianta gli occhi nei miei, respira a fondo.
«Chi sarebbe il dispotico?».
Libero un sorriso mentre abbassa nuovamente la testa e mi morde una spalla. Urlo, ma continuo a sorridere. Non sono scomparsa e lui è ancora qui con me.

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