Dieci

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MILA

Lo trovo dove mi ha lasciata stamattina, sembra non essersi mosso di un millimetro. Non piove più e l'afa si è nuovamente alzata, salgo in macchina e il suo profumo è ovunque, un misto di bucato e sigarette appena spente, le mani mi tirano dentro la solita presa brusca e sicura. Non mi lascia il tempo di respirare, mi toglie il fiato dalla gola. Il bacio ha un'urgenza ingiustificata, ma è comunque meraviglioso. Gli accarezzo una guancia, mi allontano di poco, provo a guardarlo, si scansa.
«Tutto bene?».
Non risponde, mette in moto continuando a guardare la strada. A tratti è snervante, a tratti sembra tutto estremamente naturale.
«In ufficio?».
La domanda è netta, senza riferimenti che però sono impliciti e non fatico a realizzare.
«Ho evitato Marco, se è questo che vuoi sapere».
«Non sei tenuta a evitare qualcuno, men che meno uno come lui».
Non rispondo, non voglio parlarne e non voglio discutere un'altra volta di questa situazione. Allora provo a cambiare argomento e lo faccio in fretta senza lasciargli il tempo di continuare.
«Dove abita Riccardo?».
Si prende il tempo di fare manovra, fissa la strada come se non mi fossi neppure espressa, ferma la macchina accanto a un furgone rosso e poi parla, ma lo fa senza voltarsi e con un tono sbrigativo che fatico a riconoscere.
«Siamo arrivati».
Il palazzo è antico, le targhe d'ottone riflettono la luce dei lampioni, il cancello in contrasto è nero, composto da una struttura imponente, aperto quel tanto che basta per permetterci di entrare. Seguo Dominique silenziosamente, la corte interna è popolata da vasi di terracotta e bouganville in fiore. Alzo gli occhi, incrocio il profilo delle finestre e una fetta di cielo dentro cui si affaccia di poco la luna. Una voce squillante scardina il silenzio, abbasso lo sguardo, la testa scurissima di un bambino attraversa di corsa il piazzale. Una cascata di riccioli neri ondeggia sopra a una maglietta rossa. Dominique lo solleva da terra ridono ed è una leggerezza nuova quella che mi ritrovo davanti, emozioni pronte ad azzuffarsi, a cavarsi di dosso il calore. Imboccano le scale abbracciati, salgono svelti, un gradino dietro l'altro, senza aspettarmi. Non accendono neppure la luce, è la luna che entra dai finestroni a indicare la strada.
«Giù! Giù! Torniamo giù» insiste il bambino.
«No, adesso devo vedere la mamma. Dove l'hai nascosta, mh?».
Rallentano in prossimità del campanello, si scambiano sguardi d'intesa e, solo allora, si voltano nella mia direzione.
«Questo è Elia. Il figlio di Riccardo. Elia, saluta la signorina».
Il bambino si affaccia cauto, mi guarda senza parlare, poi scalcia in avanti con i piedi e scivola a terra. Una porta si apre sprigionando una luce calda.
«Eccoli gli amanti perduti!».
Le mani di Riccardo ci afferrano, un abbraccio, una stretta, uno spintone. Una volta dentro, si affanna nel tentativo di farci mettere comodi, muove rotte disordinate, tra una sedia e il divano. Una chioma di capelli rossi emerge da dietro una colonna di marmo e lo fa zittire con la sola forza di uno sguardo.
«Mila, non ti spaventare e soprattutto non prenderlo sul serio altrimenti non ne usciamo vivi».
La luce della pelle diafana e il verde degli occhi mi raggiungono un attimo prima delle dita che stringono con forza la mano.
«Io sono Elena, la moglie del pazzo».
Mi lascio accompagnare verso una sedia di metallo, è fredda, al contatto il corpo manda brividi ovunque. Sono circondata da elementi di arredo antico che si incastrano perfettamente a piccoli squarci di modernità. Lampade di design e cornici bombate. Videogiochi impilati sopra grossi comò.
Riccardo versa a tutti un bicchiere di vino, un sorriso gli increspa le guance mentre, dentro quel gesto, cerca l'approvazione di Dominique.
«Mila, perdonami. La cantina di casa mia non è accogliente come quella del signor Gibrain».
Non mi imbarazzano più queste continue allusioni, è come se la sua totale intimità con Dominique me lo avvicinasse al punto da rendere innocua ogni affermazione. Ho la sensazione di conoscerlo da tempo, di non dovergli fornire nessuna spiegazione. Si siede dall'altro lato del tavolo, tamburella con un dito sulla tovaglia bianca, mi guarda incuriosito.
«E quindi sei un avvocato?».
«Praticante, a dire il vero».
«Voi donne fate sempre le modeste e intanto progettate la rivoluzione».
Elena si avvicina, gli infila una mano sotto il braccio e lo costringe ad alzarsi di nuovo.
«E voi uomini fate gli sbruffoni e intanto progettate la fuga. Vieni che in cucina è tutto pronto e c'è da servire la cena».
Mi alzo in fretta, come se li dovessi seguire, ma devio verso il salotto. Evito gli occhi di Dominique, raggiungo la finestra e mi aggrappo al davanzale. La strada è un fascio di luci, macchine incolonnate, non capirò mai la città e i suoi orari imprevedibili. Mi sento come se in pochi giorni avessi avuto tutto e adesso dovessi sfilarmi di mano ogni cosa, mi pesano le mie azioni spropositate, mi ferisce il suo disinteresse. Scrollo le spalle sperando che ci si appoggino le mani di qualcuno, ma non accade. Nessuno mi raggiunge, resto sola a consultare la notte, a infastidirmi con i pensieri della fidanzata che non sono e non posso essere. Piego la testa di lato, mi guardo le spalle. Lo vedo, è seduto a terra, Elia gli scavalca le spalle lanciando piccoli versi di gioia; lui ride, lo tormenta e non mi degna di uno sguardo. Esigo una distrazione, un modo per smettere di calcolare ogni sottrazione. Mi avvicino alla libreria e controllo i volumi esposti: medicina generale, anatomia umana, ortopedia pediatrica.
«Sono noiosa».
Elena mi sfiora il gomito, indica un altro scaffale più sotto, infila le dita in mezzo a due grosse cornici di argento e le sposta di lato. Altri libri sono impilati sul fondo.
«Se frequenti Dom e fissi il dorso di un libro cerchi sicuramente cose più interessanti delle fratture scomposte».
Dieci piccoli volumi, solo dieci, li conto e di riflesso sorrido.
«È poca cosa, lo so, ma ho preso il vizio di andare in biblioteca e quindi a casa ho ben poche risorse».
«Anch'io vado spesso in biblioteca».
Sorridiamo entrambe, poi prendo coraggio, chino la testa, studio gli autori esposti: Flaubert, Dostoevskij, Moravia, Fitzgerald, Pirandello, Lawrence.
«Riconosco i miei stessi vizi».
Indico i piccoli segni che si piegano dentro la pagina, le pieghe della carta, l'usura degli angoli. Sfioro l'ultimo libro con un dito.
«Te l'ho detto che sono una tizia noiosa».
Sposto la mano, mi volto e sorrido.
«Allora siamo entrambe noiose. Li ho letti anch'io, alcuni più volte».
Anticipa la presa e ne sfila uno dal ripiano.
«Lady Chatterley» sospira appena «me lo porto dietro da quasi vent'anni».
Mi rivedo come dentro a una proiezione, china sul tavolo a sottolineare frasi che non avrei saputo pronunciare ad alta voce. Mi muovevo a stento in mezzo a quelle pagine, ero il dubbio di me stessa. Penso agli occhi di Elena che cercavano come i miei un sussulto e si lasciavano ingannare dalle figure maschili così ben esposte. Erano eroi gli uomini dentro quelle righe e io li interrogavo tutti, perché la realtà non mi bastava mai.
«Anche tu cercavi una via di fuga?».
Lo dico ad alta voce, quasi incosciente di essermi spinta in avanti con una domanda. Resta in sospeso, lo vedo che non sa cosa dire e allora provo a salvare il discorso, a fornirle qualche chiarimento che ha più l'aria di un inganno.
«Intendevo dire... leggendoli, provavi a scappare da qualcosa?».
Ci penso su un istante e mi accorgo che sto disperdendo ricordi ed è una cosa che non mi concedo mai. Non conosco questa donna e lei non sa niente di me.
«Perdonami. Sto dicendo una marea di sciocchezze...».
Riposiziona il libro dentro il suo spazio vuoto e mentre lo fa non mi guarda, ma parla e la voce non sembra neppure sua, perché è Constance che si racconta, che mi conforta.
«L'animo umano ha necessità di momenti di fuga; non se li deve negare».
Mi guarda e sorride, vorrei prendere la rincorsa per parlarle, tanta è l'urgenza che ho di dire, di chiedere che non riesco a trovare l'inizio della frase. Vorrei parlare di lei, di Dominique, di me, ma non ne ho il tempo, un urlo di frustrazione ci interrompe. Mi volto, Elia piange appoggiato al bracciolo di una sedia, non capisco se è caduto o se sta semplicemente insistendo su qualcosa che non può avere. Elena si allontana e lo raggiunge in fretta.
«Adesso smettetela e sedetevi a tavola! Tutti e due!».
Riccardo esce con un vassoio di tagliatelle fumanti.
«No!».
La voce del bambino è uno squillo. È la mamma ad accompagnarlo a tavola, a soffocare ogni protesta con bisbigli segreti. In pochi attimi è dentro il piatto, si avventa con entrambe le mani sul cibo, inizia a mangiare schizzando sugo ovunque. Ride, urla, genera una confusione che ci tiene occupati per quasi tutta la cena. È euforia, elettricità, un frullo d'ali che ti passa accanto e scompare. Poi d'improvviso abbandona il pane, il bicchiere rovesciato a terra e sale in braccio alla mamma, gioca con i suoi capelli, spinge la testa dentro la piega del gomito. Elena lo accoglie, lo bacia e alla fine lo deposita delicatamente sul divano. Riccardo afferra il telecomando, mille immagini colorate escono dal televisore e gli si depositano dentro agli occhi, improvvisamente smette di parlare, si assopisce, ci ignora. Solo allora Elena si volta nella nostra direzione, consulta Dominique e poi si rivolge a me lasciandosi sfuggire un sospiro.
«Possiamo finalmente parlare».
Nessuno risponde, nessuno osa proporsi. È lei allora a muoversi per prima, si scrolla via le briciole dalla gonna e poi va a sistemarsi dentro un'altra sedia, più vicina al marito.
«Come vi siete conosciuti?».
Riccardo scoppia a ridere.
«Amore, ma non ero io quello che non doveva mettere a disagio gli ospiti?».
«Perché? Cosa ho detto di male?».
Dominique allunga le gambe sotto al tavolo, distende le braccia in aria, non mi guarda.
«A un concerto».
Lo dice sbadigliando, con l'aria di chi non ha molto altro da aggiungere. Il suo atteggiamento mi disturba, in parte mi ferisce, ma non riesco a dire una sola parola neppure io, quindi resto ferma, un'altra volta preda delle mie insicurezze. Riccardo continua a ridere, Elena squadra il marito con aria infastidita.
«La finisci di ridere senza motivo? Un concerto mi sembra un bel posto per incontrarsi. È sicuramente meglio del nostro».
Riccardo smette di ridere, si scompiglia i capelli e resta con un dito ancorato all'orecchio.
«Non direi proprio, amore. Il nostro primo incontro è stato memorabile».
Allora prendo coraggio, provo a scrollarmi di dosso il gelo che blocca ogni riflesso. «Perché? Come vi siete conosciuti?».
La mano di Dominique mi sfiora improvvisamente la schiena, tutta la tensione del corpo mi arriva addosso, sobbalzo sulla sedia, sposto avanti il peso, ma le sue dita mi arpionano la spalla riportandomi indietro. Allarga il palmo, si ferma in mezzo alle scapole, penso che se stringesse le dita potrebbe ingabbiarmi il cuore.
«Sei caduta nella trappola».
Lo guardo stupita, con le dita mi carezza la nuca.
«Trappola?».
«Riccardo trova sempre il modo per farsi elemosinare un racconto e questo è quello di cui va più fiero».
«Non starlo a sentire, è solo invidioso. E comunque ti ricordo che io questa donna qui poi l'ho anche sposata! È logico che abuso dei nostri momenti migliori».
Mentre parla afferra le spalle della moglie e se la trascina accanto, Elena ride. Lascio andare ogni tensione e mi abbandono alla presa di Dominique, è ancora lì, non si è mosso di un solo millimetro, accoglie la mia vicinanza con un'attenta pressione dei polpastrelli, non c'è nessuna infrazione, anche le colpe si dissolvono al contatto della sua presenza.
«Bene, è andata esattamente così:» Dominique ride, Riccardo lo fulmina con uno sguardo e poi riprende a parlare «dovevo vendere un appartamento ad una giovane coppia. Mi presento sul posto e aspetto sotto un temporale che pareva progettato da un Noè parecchio incazzato. Dopo qualche minuto mi vedo venire incontro una ragazza fradicia, trafelata, mi dice che il ragazzo che doveva accompagnarla non c'era, che si erano lasciati e che però a lei l'appartamento interessava comunque. Io allora la faccio entrare, anche perché di quella pioggia lì ne avevo piene le palle. Facciamo il giro delle stanze, glielo mostro ripercorrendo ogni dettaglio, l'aveva già visto e ero quasi sicuro che avrei concluso la vendita. Ne riparliamo, ci sediamo su alcuni scatoloni e lei si toglie la giacca, si lega i capelli, si sbottona la camicia. Io ero concentrato sulle mie intenzioni, pensavo volesse liberarsi dei vestiti bagnati, mica mi ero messo in mente di scoparmela così sul pianerottolo».
«Riccardo! Per cortesia! C'è il bambino!».
Elena si passa una mano sulla faccia, finge fastidio ma è chiaramente divertita.
«Beh, insomma, alla fine apro la porta invitandola a uscire e questa mi placca e inizia ad infilarmi le mani ovunque. Non ho avuto il tempo di realizzare cosa stesse accadendo perché nel giro di pochi secondi mi sono trovato a terra con il naso fracassato».
Sgrano gli occhi e una risata si mescola a un verso di meraviglia, Riccardo mi guarda compiaciuto.
«Il fidanzato era arrivato in tempo per mandarmi all'ospedale».
«Il fidanzato?».
«Esattamente».
«Ti ha rotto il naso?».
«Già. Però è stato gentile perché al pronto soccorso mi ci ha portato lui».
«Ma scusa, non si erano lasciati?».
«Macché! Stavano ancora insieme e ci stavano benissimo, anzi erano pazzi uguali! Mi hanno detto che scatenare la gelosia era il loro modo per tenere viva la passione. Non li ho denunciati solo perché poi se lo sono preso sul serio l'appartamento».
Scoppiamo a ridere tutti.
«E Elena?».
«Elena è il medico che mi ha aggiustato il naso. L'amore arriva da tutte le direzioni, sai?».
Li osservo da una distanza diversa, l'immediatezza dei loro sguardi che si cercano ostinatamente è l'emblema di un'unione a cui non ho mai osato credere. Mi volto e trovo gli occhi di Dominique, mi guarda, cerca qualcosa, forse un gesto, una reazione. Vorrei baciarlo, ma non posso. Vorrei dirgli qualcosa, ma non lo faccio.

DOMINIQUE

Elia dorme sul divano, lo bacio sfiorandogli piano la fronte. Abbraccio Elena con la promessa di chiamarla nel giro di qualche giorno e scendo in strada. Mila è scortata da Riccardo, prima di salire in macchina lo saluta sprofondando col naso dentro il suo inconfondibile accenno di barba, lui di rimando le sussurra qualcosa all'orecchio. Ridono insieme, sono già complici. Poi lei sale in macchina e lui alza gli occhi, li infila nei miei, imperturbabile e composto. Metto in moto, è tardi, le strade sono vuote.
«Posso chiederti una cosa? Ma devi essere sincero. Non voglio gesti di pietà».
«Mai fatto gesti di pietà in vita mia».
«Sabato prossimo i miei genitori festeggiano l'anniversario di matrimonio».
«Non dirmi che non ci sei, perché non ho intenzione di rinunciare al tempo che ci rimane».
Mi fermo in tempo, i suoi occhi mostrano chiaramente una difficoltà, cerca parole che non riesce a pronunciare.
«Ti ho interrotta. Perdonami».
Alza gli occhi e poi li riabbassa subito, c'è una strana nota di imbarazzo nel suo sguardo.
«Abbiamo organizzato una festa, mi chiedevo se volevi accompagnarmi. Stasera da Riccardo è stato un po' come stare con la tua famiglia e ho pensato che potresti affrontare la mia con la stessa tranquillità, ma questo non significa nulla. Credimi, non voglio...».
«Va bene».
Le parole le muoiono in gola. È seria, si morde le labbra, mi guarda dubbiosa.
«Sei sicuro?».
«Serata elegante?».
«Conoscendo mia madre direi di sì».
«Quindi niente t-shirt».
Si avvicina, mi sfiora il collo con la punta del naso.
«Quindi niente t-shirt».
Spingo sull'acceleratore e in un attimo siamo sotto casa sua. Scendo dalla macchina senza cercarle gli occhi, inizio a baciarla in strada, avverto la sua inconfondibile risata sulla pelle. La scala è buia, in pochi passi raggiungiamo l'ascensore. Quando le porte si aprono scivoliamo dentro. Mi lecca le labbra e geme mentre le calo i pantaloni e la giro verso la parete.
«Qui?».
«Ovunque. Con te ovunque».
Con una mano schiaccio il tasto e blocco la corsa a metà strada. Libero l'erezione, la penetro con una nuova sensazione di potenza addosso, sono dentro di lei, sento che geme e si contorce, sento che mi vuole e non può farne a meno. Appoggia i palmi sullo specchio, i muscoli delle braccia si tendono, la bocca si apre sotto il peso dei miei colpi. Voglio ogni spazio, ogni momento in cui vive e trascorre il suo tempo. Con una mano le sfioro il clitoride, trema scossa dal piacere. Butta indietro la testa, apre gli occhi, mi cerca. La sua voce mi entra dentro e tende nastri ovunque, stringe nodi. Vengo in silenzio, aggrappato alla sua schiena. Non c'è più distinzione tra il prima e il dopo, tra la necessità e il desiderio
«Non l'avevo mai fatto dentro l'ascensore» bisbiglia trattenendo a stento una risata.
«Neanch'io».
Mi lancia un'occhiata di traverso, una fossetta le riempie la guancia.
«Bugiardo».
«Intendevo dentro questo ascensore».
Scivoliamo lontani, ci rivestiamo senza dire niente. Spinge il tasto e l'ascensore riparte. La guardo, non mi guarda. Non ho idea di cosa potrebbe dirmi, ed è esattamente quello che non riesco a dirle io, siamo i protagonisti di un tempo sconosciuto, disseminato di prime volte come un'adolescenza che coltiva l'illusione di non finire mai.
Entriamo in casa. Sara è seduta davanti alla televisione, si volta, alza un sopracciglio.
«Stasera non ho voglia di vedere mia mamma».
Mila la raggiunge e si siede al suo fianco, le guance arrossate, l'aria colpevole.
«Tranquilla. Non devi andartene».
Appoggio le chiavi della macchina sul tavolino ai piedi del divano.
«Puoi sempre farti un giro in Porsche».
Balza in piedi e ride di gusto.
«Dici sul serio?».
«No».
Sprofonda di nuovo tra i cuscini trattenendo a stento il disappunto.
«Allora puoi restare, ma ti avviso che ho il sonno leggero».
«Penso che tornerò in albergo».
Gli occhi di Mila si alzano di scatto. Percepisco i suoi pensieri come chiodi che si infilano ovunque e allora faccio retromarcia, mi rimangio ogni accortezza, abbandono le regole, prendo le distanze dai confini che avevo così abilmente tracciato.
«Sempre che Mila non voglia ospitarmi nel suo letto».
Sara si stende sul divano e allunga le braccia verso il soffitto.
«E diamoglielo un letto a questo pover'uomo».
È la risata di Mila che mi accompagna fino alla stanza e copre a stento le urla di Sara che raccomanda rispetto e pudore. La porta si chiude alle mie spalle con un tonfo silenzioso. Mi tolgo la maglietta mentre si sfila la camicia, muoviamo gesti intimi come se ci appartenessero da tempo. Va verso l'armadio, lo apre, estrae una canotta e la indossa un attimo dopo essersi tolta il reggiseno e i pantaloni.
«Vieni».
Entro nel suo letto e in pochi secondi me la ritrovo accanto. I capelli neri sulla spalla, il naso sul collo, le mani sul torace. Alza gli occhi e mi guarda. Aspiro il suo profumo e chiudo gli occhi. Ingoio le parole che non so dire, i pensieri che, so già, non mi faranno dormire.

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