Dopo di lui

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MILA

Gli occhi di Marco sono a pochi centimetri dai miei. Le pareti dell'archivio sembrano piegarsi sopra le nostre teste. I raccoglitori rossi si inclinano, proprio come mi sto piegando io dentro il suo cerchio di pretese e attenzioni. Le sue labbra si muovono dentro il mio sterno. Una scia calda sale verso il collo, non mi sposto. Stringo tra le dita il ripiano, apro le gambe.
«Brava, lo sapevo che saresti tornata».
Bisbiglia appena. Gli infilo una mano tra i capelli e tiro. Mi libero dalla presa e provo a sostenermi, a spingere indietro il bacino per non cadere, lo spigolo di un raccoglitore mi graffia la pelle.
«Sapevi che sarei tornata?».
«Sì, è del mio cazzo che hai bisogno».
Gli mordo il lobo di un orecchio e mi insinuo dentro il profumo familiare dei suoi capelli. Le sue mani spingono in alto la gonna, la sua erezione mi preme contro.
«Io posso regolare tutto ed è per questo che torni sempre da me, perché lo sai che sono io che decido».
Percorre il filo del perizoma, cerca, rovista. Non tradisco alcuna emozione, scivola appena oltre la presa, raddrizza le spalle e mi inchioda con quei suoi occhi di vetro.
«Tu non puoi fare niente senza di me. Guarda quello che è successo. Se sei ancora qui è solo perché sono io a concedertelo, quindi adesso apri bene queste gambe e fatti scopare».
«E Bollani? Cosa dirai a Bollani?».
La sua bocca è di nuovo dentro la mia, ansima mentre cerca un'altra volta di sfilarmi il perizoma.
«Gli dirò che sei innamorata. Le donne innamorate sono tutte stupide».
L'affanno mi preme in gola.
«Ma tu lo sai che non è vero».
«Cosa? Che non sei stupida? Beh, obiettivamente eri quasi riuscita a dimostrare la verità. Peccato che io sono più intelligente di te».
Con un dito mi entra dentro, stringo le ginocchia.
«Come hai fatto? Dimmelo, voglio sapere come ci sei riuscito. Mi eccita il tuo dominio, dovresti saperlo».
La sua bocca si piega in un sorriso, mi bacia ancora, non trattiene il piacere. Il braccio mi fa male, la pelle mi brucia.
«Quello che non c'è bisogna crearlo. Il verbale era incompleto, così ho aggiunto le frasi mancanti. Un giochetto adolescenziale che funziona sempre».
Scende, mi afferra un seno, lo sfila dalla scollatura, lo stringe fino a farmi male.
«La vita è un puzzle, Mila. Ogni cosa deve andare al suo posto e se non sei abbastanza scaltro nel riempire per primo ogni spazio, sarai fottuto».
«Come fai tu?».
La mia voce è un lamento.
Si spinge in avanti, prova a penetrarmi.
«Adoro fotterti, piccola mia».
Provo a spostarmi ma mi sbatte indietro, il ripiano scava nelle ossa.
«Stai ferma, cazzo! Sto iniziando a perdere la pazienza».
Tutto il mio dolore esplode. Alzo un ginocchio e faccio leva sul torace, piego indietro il bacino e lo allontano. Il suo peso non mi ostacola, è travolto dall'euforia, non ha la prontezza di riflessi per trattenermi.
«Lasciami!».
Alza la testa e ride.
«Tu non vai da nessuna parte».
Lasciami.
Si avvicina di nuovo, mi sposto. Devo guadagnare le scale e tornare di sopra. Mi afferra un polso e mi spinge di nuovo verso la libreria, cado all'indietro e sbatto la testa sul ripiano di ferro. Il colpo mi stordisce, un dolore acuto preme sulla tempia destra. Mi sfioro con un dito, tolgo la mano e vedo il sangue che riempie le pieghe, che scivola sul polso dentro una riga scomposta. Il mio sangue. La mia mano. La sua mano. La mano di mia madre.
«Stupida puttana!».
«Lasciami... ti prego».
La mia voce è un bisbiglio, un lamento che svolazza in aria senza nessuna forza disposta a sostenerlo.
«Marco! Lasciala immediatamente!».
Chiudo gli occhi di riflesso. Come quando si è bambini e la paura ti blocca al punto da volerla cacciare via con gli occhi. Come quando cerchi rifugio dentro a uno scatolone vuoto e piangi e preghi e chiedi che ti restituiscano tutto quello che hai perso. Come quando aspetti che vengano a prenderti i tuoi genitori e ne arrivano altri, diversi, che ti promettono un amore che non sarà mai sufficiente. Come quando la vita ti vomita fuori e ti trovi a doverne gestire un'altra che sembra più bella, ma è e resterà comunque diversa da quella che avresti potuto avere. Se solo mio padre non avesse cancellato mia madre. Se solo il buio non si fosse ingoiato la mia vita.
Butto fuori l'aria, la redenzione. Il vuoto che ho dentro si riempie e trovo il coraggio per alzare le palpebre, la forza di guardare. Bollani è sulle scale. Carlotta è dietro di lui, gli occhi accesi dalla disperazione.
Marco si volta, si tira su i pantaloni, butta indietro la testa e finalmente la paura abbandona il mio corpo per scivolare lenta dentro il suo.
Mi sollevo piano, sbando, ho le vertigini, la nausea. Afferro in fretta il telefono che avevo messo dentro lo scaffale e blocco la registrazione. Vedo le mie mani che tremano, sono sporche, sono vive. Il respiro mi muore in gola, i polmoni stringono, si fanno piccoli, due noccioli duri, immobili. Una gamba cede per prima e il buio scende dentro di me come una lama.

MILA

Carlotta mi tampona il viso con un fazzoletto bagnato. Piego il gomito e mi tiro su, prova a trattenermi ma riesco a sciogliere la presa. Appoggio la schiena al muro mentre si mette seduta al mio fianco.
«Ho chiamato un'ambulanza».
«Richiamali e dì pure che non serve. Sto bene».
«Sei sicura?».
«Sì. Ho avuto un mancamento. È da ieri pomeriggio che non mangio».
«Non lo so, Mila».
«Sul serio, sto bene. Dove sono tutti?».
Mi accarezza una spalla.
«Di sopra. Non so altro. Perdonami, per prima, ma io proprio non ce l'ho fatta ad aspettare come mi avevi detto di fare. Dieci minuti sono lunghi, troppo lunghi. E poi è arrivato Bollani e allora, non lo so, forse ho sbagliato a portarlo giù, ma mi è sembrata l'unica cosa sensata da fare».
Le prendo la mano e la stringo.
«Non ti ringrazierò mai abbastanza. Sono stata una stupida a pensare di farcela da sola».
Si inginocchia al mio fianco e mi abbraccia. I capelli profumano di gelsomino, il contatto mi fa sentire a casa.

Mila dove sei?
Sotto i gelsomini, Caterina.
Non sopporto quest'odore, esci!
Non è odore, è profumo, Caterina.
Esci.
Le sue braccia mi sollevano, il suo profumo cancella i gelsomini. Il suo ricordo cancella il mio dolore.
Quand'è che proverai a chiamarmi mamma? Quando?

«Aiutami ad alzarmi, dai».
Mi afferra con entrambe le mani e mi rimette in piedi. Una punta di dolore si irradia dalla testa fino alla spalla destra. Ci guardiamo un'ultima volta prima di imboccare le scale.
«Io non lo sapevo. Mila. Non avrei mai creduto che Marco...».
Piego la testa nella sua direzione, vorrei abbracciarla ma sono troppo stanca per farlo. Il corridoio è buio.
«È una storia che si chiude qui e non voglio parlarne più».
Entriamo nel mio ufficio e mi siedo. Carlotta mi porge una bottiglia d'acqua, l'afferro e me la porto alla bocca. Ho la gola in fiamme e la pelle che scotta. Mi sfioro una guancia e avverto il gelo delle dita. Mi alzo, prendo la borsa, voglio solo andarmene via.
«Devo chiamare un taxi».
«No. Ti porto a casa io. Sono qui in macchina».
Si aggrappa al mio braccio, lo trattiene, è al mio fianco e non intende lasciarmi. Il corridoio è vuoto, la sua scrivania è vuota. La porta di Bollani è chiusa, sento delle voci, ma non colgo il senso di nessuna parola. Non voglio cogliere il senso di nessuna parola. Le porte dell'ascensore si aprono, scendiamo senza parlare. Usciamo in strada che il sole è già stato risucchiato dai palazzi, l'aria è densa di umidità e il mio corpo smania per respirare. Carlotta mi scorta fino alla macchina, salgo senza guardarmi in giro. Vorrei sciogliermi dentro questo sedile, lasciarmi divorare dall'imbottitura e scomparire oltre questo confine di materia e vuoto emozionale, invece sono un cumulo di sensazioni, un ammasso di avvertimenti. Sapevo che Marco avrebbe ceduto davanti alla mia resa, che l'avrebbe accolta come un'occasione per riprendersi tutto.
Non so dove andare. Non so niente. Forse ho sbagliato tutto. Forse osare non è un verbo in grado di fluire liberamente dalle mie labbra. Forse la mia materia necessita d'altro, di sicurezze che non posso avere, di giustificazioni che non posso dare. Ho portato tutto al limite, ho rotto gli argini della ragione, ho superato il confine.

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