Sedici

21 3 0
                                    

MILA

La colazione è sul comodino. Un caffè, un succo di frutta, una fetta di torta. Ho dormito troppo profondamente, mi bruciano gli occhi e non realizzo subito dove sono. Ripenso alle colazioni di mia madre, quelle che si ostinava a presentarmi ogni mattina, io neppure le vedevo le possibili variazioni alimentari che ammassava in mezzo al tavolo, scappavo con un biscotto in mano e lo stomaco chiuso. Il giardino era un campo di rose che esplodevano come fuochi d'artificio. Sgusciavo tra i sassi come una biscia ed ero piccola, minuta, troppo magra. Ciondolavo la testa dentro a un no che non riuscivo a pronunciare. Non sapevo da che parte dovevo far uscire la voce, era tutto fermo lì, sul fondo della gola.

Non mangia. Perché non mangia?
Mangerà.
Non parla. Perché non parla?
Parlerà.

Quell'uomo rassicurava la sua donna con brevi promesse di eternità.
Ho sete, le labbra sono secche. Sento il rumore della doccia. Dominique mi ha lasciata dormire. Dovrei correre verso la borsa, controllare l'ora, precipitarmi in strada, ma non ne ho le forze. Ho perso ogni determinazione, non riconosco più i miei obiettivi.
Allungo un braccio e prendo il succo, me lo porto alle labbra e lo mando giù in un unico sorso, la gola si riempie e la sete si assesta. Scendo dal letto, guardo il cielo grigio oltre il terrazzo. Devo farmi un bagno, ho la testa che mi esplode e voglio lavarmi via tutta questa stanchezza. Torno verso il comodino e mando giù il caffè ormai freddo. Guardo la torta ma non ho nessuna voglia di mangiare.
La porta alle mie spalle si apre. Dominique esce con un asciugamano avvolto attorno ai fianchi e i capelli che gli gocciolano sulla fronte.
«Buongiorno».
Si avvicina, mi sfiora appena, piega la testa di lato e analizza la mia espressione.
«Tutto bene?».
Porto una mano alla fronte e lo guardo.
«Mal di testa».
«Vuoi tornare a letto?».
«No. Ho bisogno di farmi un bagno. Devo svegliarmi, uscire e prendere aria».
Infila un braccio sotto le mie gambe e mi solleva da terra.
«Principessa, sono al tuo servizio».
Sorrido, oggi è stranamente allegro.
«Da avvocato a ragazzina per poi passare a principessa. Applichi troppe variabili alla mia identità».
«La tua identità è una continua variabile».
Mi adagia dentro la vasca, apre il rubinetto e mi fa scorrere l'acqua sulla schiena. Una morbida schiuma inizia ad alzarsi attorno alle gambe. Smuove la superficie con le mani e mi accarezza la pelle. Sembra voler restare così, in contemplazione, ma poi invece si immerge, mi afferra un piede e lo massaggia piano, dal centro verso la punta, stringe le dita una ad una e poi torna sul tallone. Ripete l'operazione sull'altro piede e io resto immobile a galleggiare dentro il mio corpo che sembra essersi fatto improvvisamente liquido. Sono una macchia che si perde tra la schiuma.
«Va meglio?».
Annuisco appena, sorrido. Solleva una mano e me la porge.
«Vieni qui.»
Giro su me stessa, appoggio la schiena al suo torace, lascio che mi accolga completamente dentro la piega delle braccia. Restiamo in questa posizione per qualche minuto, senza parlare. È Dominique a interrompere il contatto, si allontana di poco, mi sfiora le spalle e affonda sui muscoli con le dita, in poche mosse ben calibrate riesce a sciogliere ogni tensione.
«Non ho neanche guardato l'ora. Sarò sicuramente in ritardo».
«Sarai puntualissima».
«A che ora vedi Bollani?».
«Quando lo vedi tu».
«Posso farti una domanda?».
«Certo».
«Quando è morto tuo padre?».
«Poco più di un anno fa».
«E com'è successo?».
«Un incidente. È uscito di strada con la macchina. Lo hanno trovato poco distante da Beirut».
«E tua madre? Era lì con lui?».
«No. Mia madre e mio padre non stanno più insieme da parecchio tempo».
Si solleva rapido, grosse gocce d'acqua mi piovono addosso, esce dalla vasca. Prende un asciugamano e mi guarda, mi alzo anch'io come se rispondessi ad un ordine implicito.
«Se non ti va non dobbiamo parlarne».
Appoggia i palmi alle mie guance, solleva le dita verso i miei capelli e li sposta leggermente di lato.
«Non è un problema e forse ha senso che tu sappia molte più cose».
Mi appoggia l'asciugamano sulle spalle e mi accompagna in stanza dove ci sediamo uno di fronte all'altro.
«Mio padre era un uomo con un grande ego e una notevole predisposizione al comando. Mia madre lo ha sempre assecondato, non ha mai preteso niente di più di quello che lui era disposto a dare. Si incontravano qualche giorno e poi erano costretti ad allontanarsi perché non potevano vivere diversamente. Di lui ho conosciuto solo le assenze».
Spinge avanti le gambe e fissa la finestra davanti a noi.
«E tu, in mezzo a tutto questo come stavi?».
«Se non conosci altre forme d'amore tutto questo può diventare normale».
«Eppure a un certo punto ti sei allontanato, quindi tanto normale non deve esserti sembrato».
Mi guarda, si sfiora le labbra con un dito e sorride.
«A un certo punto si scappa sempre da qualcosa. Io volevo altre opzioni e ho iniziato a spostarmi a caso. Ero un ragazzino. Poi forse le pressioni paterne hanno smosso qualcosa in più. Mi sono messo in società con un amico e ho aperto un locale proprio per dimostrargli che valevo qualcosa. In realtà non si è mai interessato alla questione».
«Ma non ha mai provato a coinvolgerti nei suoi affari?».
«Sì, una volta, ma il mio rifiuto deve averlo convinto piuttosto in fretta. Non ne abbiamo più parlato. Anche perché non ci siamo più rivisti».
Trascino la mia sedia verso la sua, le nostre ginocchia si sfiorano.
«Quando lo hai visto l'ultima volta?».
«Otto anni fa.»
Alzo gli occhi e lo guardo. La sua espressione è seria, si incrina appena dentro una nota di fastidio. Gli afferro le mani e me le porto alla bocca, gli bacio ogni nocca. Scioglie la presa, si alza e va verso l'armadio.
«Non soffro, se è quello che pensi. Per soffrire devi aver amato profondamente e per amare devi poter stare con una persona. Io di lui ho molti ricordi confusi, ma non c'è altro, credimi».
Lo raggiungo mentre si infila un paio di pantaloni. Mi volta le spalle, la pelle è così liscia e luminosa che proprio non ce la faccio a impedirmi di toccarlo. Gli accarezzo la schiena e lo bacio in mezzo alle scapole.
«Andiamo».
Lo lascio solo, prendo le mie cose e torno in bagno. Indosso un paio di pantaloni blu e una blusa bianca che si incrocia all'altezza del seno. Mi specchio, sfioro la collana che brilla sotto la luce dei led. Non l'ho più tolta, è un oggetto che avevo dimenticato di avere, come un'articolazione, un organo interno, un'abitudine.
Un punto di sofferenza spinge dentro il torace. Forse dovrei raccontare anch'io della mia infanzia, di quella spaccatura, del dolore che ha distrutto e ricomposto ogni cosa. Incrocio i miei occhi e le domande sono ancora tutte lì, galleggiano in superficie. Non sono pronta, non ce la posso fare, è ancora tutto troppo incerto e io non posso rendicontare le mie paure a qualcuno che non è disposto ad accogliermi completamente. Rimando indietro ogni perplessità, devo essere lucida, attenta in ogni gesto, non posso concedermi altre disattenzioni. Apro la porta ed esco. È in piedi, davanti alla finestra, attende la presa delle mani e poi mi guida con decisione verso l'ascensore. I suoi occhi fissano il profilo luminoso delle porte, affonda un dito dentro il palmo, mi volto e lo cerco, ho bisogno di sentirmelo addosso, devo accertarmi continuamente della sua presenza. I capelli gli sfiorano le ciglia, alzo il mento per dedicargli tutta l'attenzione che si merita, lui in tutta risposta mi afferra la testa e cerca le labbra, se ne impossessa, le sfiora, ci gioca. È un bacio diverso, resta in superficie, non affonda mai, non mi divora. Dentro questo gesto c'è una tenerezza che non mi aveva ancora mostrato. Torna al suo posto e resto allacciata alla sua mano senza parlare. Questo è Dominique: nessuna parola e mille modi per farsi sentire.

OUTSIDEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora