Una promessa di felicità

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DOMINIQUE

Sono a casa sua, comodamente seduto sul divano. Sara mi cammina attorno cercando un motivo per andarsene. Il parquet scricchiola ad ogni passaggio.
«Non volevo metterti ansia. Sono venuto prima solo per preparare la cena ed era scontato che saresti rimasta con noi».
Si ferma, appoggia i gomiti al muro, poi si sposta di nuovo e mi viene incontro. Con un piede scansa il tavolino davanti a me, si siede e mi guarda indispettita.
«Ascoltami bene: io adesso me ne vado e tu qui puoi cucinare, mangiare, lavare i piatti, cambiare la tappezzeria del divano, tutto. L'unica cosa che non ti è concessa fare - e ascoltami bene perché non scherzo - è farla soffrire. Qui dentro non sono ammessi gesti idioti e men che meno cazzate dettate dall'ego spropositato di un miliardario senza fissa dimora».
Appoggio i polsi alle ginocchia, il suo naso è a pochi centimetri dal mio. Vacilla ma non si sposta.
«Non ho nessuna intenzione di farle del male e non c'è nessun ego da soddisfare. Non qui, almeno».
I suoi occhi sono fermi, immobili. Indaga le mie intenzioni con ogni parte del corpo. Poi si allontana d'improvviso e si rilassa.
«Della struttura del tuo ego avremo modo di riparlare. Adesso devo andare».
Si alza, sposta il peso da una gamba all'altra e poi si fa risucchiare dal corridoio. Qualche minuto dopo torna con una borsa appesa alla spalla e due libri stretti in una mano.
«Ah, vedi di non far sparire tutte quelle meraviglie che hai messo in frigo. Con quello che hai portato mangeremo per dodici giorni».
«Agli ordini».
Sorride, apre la porta e poi scompare oltre la soglia.
Questa casa sembra vuota, finestre piene di cielo, vetri rigati dalla luce. Una fotografia è appesa al frigo con un piccolo magnete a forma di cuore: Sara e Mila, abbracciate, abbronzate. Gli occhi di Mila così chiari, in contrasto con le ombre scure sulla pelle. Muovo qualche passo nella stanza, cerco qualche traccia in più ma non trovo altro. Una strana curiosità mi costringe a spostarmi tra gli oggetti, a varcare l'intimità di una persona che non conosco. Pochi mobili spaiati, un tappeto rosso, un divano chiaro, macchiato nella parte centrale. Raggiungo la cucina, apro i pensili a casaccio, raccatto pentole, mestoli. Non so come possano sopravvivere, di tutti gli oggetti che cerco trovo il minimo indispensabile. Prendo una birra dal frigo, la bevo mentre inizio a tagliare le verdure. Anthony si è occupato della spesa, non manca nulla. Cucinare mi rilassa, dei luoghi in cui ho vissuto ho svariati ricordi e nei piatti che cucino ricompongo gli odori di tutte le distanze percorse. Questa sera sono le spezie di un tempo a sciogliersi dentro le pieghe della carne. Annuso l'aria per ritrovare una parte di passato che fatico a ricordare, mi sforzo come se quella fatica potesse garantirmi l'immutabile certezza di non dover tornare indietro. La cannella, il cumino, il limone, sono tutti elementi presenti nella mia infanzia.
Le chiavi si muovono sulla porta. Varca la soglia, con lo sguardo sostiene brevemente il mio e poi si scansa di un passo prendendosi il tempo di studiarmi da lontano, nell'espressione lo stupore affonda il suo colpo. Un altro passo la porterebbe troppo in avanti. Troppo per me? Troppo per lei? Finalmente sorride schiudendo le labbra rosse.
«Stai diventando parecchio invadente».
Resto fermo nella mia posizione, non rispondo. È lei a farsi avanti per prima, a baciarmi come se fosse un fatto naturale, un'abitudine a cui le risulta impossibile sottrarsi. La bocca non ha perso la morbidezza del mattino. Non tolgo le mani dal tavolo, non la voglio toccare, non ora. Sposta la testa di lato, i capelli mi solleticano il naso.
«Non dovevi metterti a cucinare».
Butto indietro la testa per centrarle gli occhi con lo sguardo.
«Francamente non vedevo molte alternative, il tuo frigorifero porta i segni evidenti della desolazione. E, per quanto tu sia allettante, il mio stomaco non contempla il digiuno».
Si solleva sulle punte dei piedi, ride mentre affonda con i denti sul mento. Gli occhi scrutano dal basso e il morso si trasforma in un bacio, un altro e poi un altro ancora. «Peccato. Il mio stomaco invece in tua presenza regge molto bene i morsi della fame» si stacca, ride. «Torno subito».
Attraversa il corridoio affondando entrambe le mani nei capelli, la testa leggermente inclinata verso destra, le spalle sbilanciate in avanti.
Non ci si spinge mai troppo oltre, un salto in avanti e poi il vuoto sotto, un assurdo andare e venire di gente, è così che mi predispongo al futuro, che anticipo le incertezze. Eppure oggi mi guardo attorno come se dovessi controllare la scena, come se non capissi veramente quello che sta per accadere e questa cosa mi muove addosso un disturbo che avverto per la prima volta. La carne cuoce, il profumo è ovunque, taglio le verdure, mi concentro sui movimenti rapidi del polso. Ritrovo il passo e mi lascio avvolgere dal silenzio di una casa che sembra un'altra volta disabitata.
Un fruscio si muove d'improvviso alle mie spalle. Abbasso gli occhi, vedo i suoi piedi scalzi. I gomiti stringono sui fianchi, manda in aria un respiro.
«Stanca?».
«Affatto».
«Accomodati. Sei un'altra volta mia ospite».
«In casa mia?».
«È la giusta misura delle cose».
Ride strizzando gli occhi, i denti bianchi si affacciano appena. Si allontana, raggiunge il tavolo in pochi passi. Le gambe nude si piegano sulla sedia in una posizione che pare scomoda e in cui invece è perfettamente a suo agio, il tallone affondato nella coscia, il ginocchio sospeso nel vuoto. La raggiungo, deposito il piatto a pochi centimetri dalla mano aperta. Ci sbircia dentro, prende la forchetta ma non affonda.
«Dammi una coordinata».
«Beirut».
«E poi?».
«Moghrabieh».
Apre le labbra come se volesse rispondere poi ci ripensa e assaggia. Mastica lentamente la consistenza degli ingredienti, sorride compiaciuta.
«È molto buono».
Fa una pausa, mi guarda e poi sposta distrattamente gli occhi altrove.
«Toglimi una curiosità, in tutto quello che fai c'è una specie di storia da scoprire?».
«Cosa intendi?».
«Voglio dire, hai dei locali pieni zeppi di libri, mischi il vino con i romanzi d'appendice, mi viene logico pensare che non ti accontenti di cucinare e basta» sorride «ma forse ho letto troppe volte le sorelle Brontë, e cerco risvolti romantici in ogni cosa che incontro. Porta pazienza».
Mando giù un sorso di vino mentre si appoggia allo schienale della sedia e scompone le gambe sotto il tavolo.
«Pericolose le sorelle Brontë... preferisco Dickens».
«Non è una risposta».
«Lo so».
Sorrido. Sorride.
«Sono meno letterario di quello che pensi, ma se vuoi una storia eccola: mia nonna cucinava questo piatto quando andavo a trovarla. Qui ci sono tutti gli odori di casa sua».
Con un dito si sposta il ciuffo di capelli che le sfiora le ciglia e mi guarda.
«Andavi spesso a Beirut?».
«Raramente. Oltre a mia nonna c'era mio padre. Quando ero in Italia veniva a trovarmi, altre volte era mia madre che mi portava da lui ma ci fermavamo pochi giorni. Non siamo mai riusciti a mettere radici in Libano».
«Perché?».
La guardo, non rispondo, non trovo il modo di spostare le sue attenzioni altrove, ma non demorde, appoggia i gomiti al tavolo e torna alla carica. È più risoluta del solito.
«Perché tua madre non si è legata al paese di suo marito? Voglio dire c'eri tu, eri il figlio di entrambi, forse bastavi lo sforzo di provarci».
La voce è calma, ma una linea sottile le percorre la fronte, ha l'aria corrucciata, sembra improvvisamente travolta da un malessere del tutto personale.
«Forse perché non riuscivano a stare assieme. La loro era un'unione sbagliata».
Apro un'altra bottiglia di vino e le riempio il bicchiere. Non sembra badarci, mi guarda senza scansare lo sguardo, senza nascondere l'interesse che le brucia addosso.
«Come si sono conosciuti?».
«Mio padre di passaggio in Italia, lei qui, si innamorano. Le sorelle Brontë apprezzerebbero».
Sorride.
«E quand'è che tuo padre se n'è andato?».
«Sono nato che lui non c'era già più. Si vedevano ripetutamente, ma non era come avere dei genitori. Hanno continuato così per tutta la vita, non credere. Partenze. Arrivi. Ripartenze. E io con loro. Uno strazio».
Resta seduta, attenta, poi sposta di poco la sedia e si allontana dal tavolo.
«Finché hai deciso di interrompere lo strazio e continuare da solo».
«Più o meno».
Mi alzo e la raggiungo. Si alza e mi fissa per qualche secondo prima di spostare un'altra volta gli occhi altrove. È tornata ad essere quella di prima, un compromesso tra furore e paura.
«Vieni, ho bisogno di una mano in cucina».
Torna a guardarmi e questa volta lo fa in un modo diverso, strizza di poco gli occhi e manda indietro i capelli scoprendo del tutto le spalle.
«Ti avviso che non sono affatto brava».
«Lo avevo intuito».
Apre la bocca ma non contesta, porta le braccia al petto e si volta verso la cucina.
«Cosa facciamo?».
«Mahalabeya».
«Sempre più difficile».
«Non farti ingannare dalle apparenze. Prendi il latte dal frigo».
Afferro un pentolino e lo metto sul fuoco.
«Versa il latte qui dentro. Cinque cucchiai di amido e cinque di zucchero. Ce la puoi fare».
Segue le mie indicazioni e ad ogni passaggio si ferma, sospira. Sono alle sue spalle ma non la tocco.
«E adesso versaci dentro l'acqua di rose».
«Non sapevo di avere dell'acqua di rose».
«Infatti non ce l'avevi».
Si spinge indietro di poco. Volta la testa e cerca di sfiorarmi la bocca ma mi allontano quel tanto che basta da impedirle il contatto.
«Continua a mescolare, altrimenti rovini tutto».
Le sfioro il collo, accarezzo piano la spalla, ne aspiro il profumo. Il mestolo le scivola di mano, scendo sulla coscia. Risalendo sollevo la maglia, sento l'elastico sottile degli slip contro i polpastrelli, il ventre piatto che si muove sotto il palmo, il seno nudo che mi riempie la mano.
«Dominique...».
«Sh. Non hai ancora finito».
Tolgo la mano e mi allontano di scatto lasciandola in bilico, sposta indietro un piede sbilanciata dal suo stesso peso. Prendo due bicchieri e li riempio fino all'orlo, cospargo la superficie con mandorle e pistacchi e poi mi volto. È appoggiata al mobile, mi guarda.
«Non dirmi che devo lavare i piatti».
Afferro con entrambe le mani il pensile sopra la sua testa e la fisso dritta negli occhi, posso sentire il respiro che mi entra dentro.
«Più tardi, forse. Adesso dobbiamo aspettare che si raffreddi il dolce. Abbiamo tutto il tempo per fare altro».

MILA

La sua figura si staglia davanti a me, sospiro pensando che nella penombra del suo corpo non può vedere la spasmodica curiosità dei miei occhi che si muovono su di lui. Il naso si riempie di un profumo che non mi appartiene, olii essenziali e fragranze che non riesco ad individuare. Gli sbottono i jeans e mi piego in avanti, ma questa volta è lui ad anticipare i gesti, mi solleva la maglia, raccoglie il viso nella presa salda delle mani. Mi solleva bruscamente, sbatto contro il muro, sono seduta, in bilico sullo schienale del divano, mi allarga le ginocchia con un gesto secco e in risposta spingo in gola l'aria, nessun suono riempie la bocca. Non mi bacia, mi sfila gli slip, stringe la carne fino a piantarci le dita. Le sue spalle sono sotto di me, i muscoli tesi nella mia direzione. Sento tutta la sua pressione contro, intercetto la mia immagine riflessa nel vetro della cucina e il piacere inizia a montare la sua furia.
È insopportabile il controllo che riesce ad esercitare, un lamento malmesso sfugge alla presa dei denti, mi accascio contro di lui quando allontana le mani. Non me lo concede il tempo di un solo lamento, anche se vorrei urlare e sbattergli addosso i pugni, le braccia, i piedi, perché non reggo l'insoddisfazione che si mescola al desiderio. Il peso del corpo mi pare insostenibile e allora mi prende in braccio.
«Ho bisogno di un letto e fai che non sia quello della tua amica».
«La seconda porta a destra».
Le lenzuola scottano quando le tocco e tutt'attorno i mobili, le scarpe a terra, ogni cosa che prima esisteva si perde nell'oscurità, i colori scompaiono, solo i sensi mi guidano nello spiraglio di luce che entra dalla porta. Intravedo il suo profilo, nero dentro il nero. Si toglie i pantaloni, resta nudo, si concede un tempo brevissimo che ingoio malamente. Il materasso si abbassa mentre mi sale addosso, con le mani afferra i polsi, me li porta sopra la testa costringendomi a tenere le braccia tese. Provo ad abbassarle per abbracciarlo, ma me le riporta su. Forza il movimento, mi fa persino male, poi si solleva e mi affonda addosso un respiro umido.
«Pensi di farcela a stare ferma?».
La voce mi esce senza che sia io a generare un solo pensiero.
«Sì».
Si allontana di poco, il materasso si muove sotto di noi, lo sento armeggiare a terra e poi risalirmi addosso. Usa la cintura che ha sfilato dai pantaloni per legarmi i polsi, la fissa alla testiera del letto e stringe i passanti con un movimento secco.
«Se ti fa male basta che mi dici di smettere».
Mi bacia i gomiti e scende piano. Con le mani stringe i fianchi e li trascina più in basso, i muscoli si tendono e il desiderio aumenta. Sollevo le ginocchia e inizia a penetrarmi lentamente. Ho la pelle che brucia e la sensazione che ogni singola cellula del corpo stia per esplodere. Le sue mani mi liberano dalla presa, risalgono, si avventano sul seno.
«Sei così bella».
Il piacere ha un valore subdolo, dura quel tempo che basta per farti impazzire e dimenticare tutto. Vorrei trattenere ogni singola scossa per poterla divorare a mio piacimento, ma tutto si consuma in fretta e il mio corpo risponde al suo con un lamento che decreta la fine di ogni torpore. Spinge più forte, senza darmi tregua e poi un'ultima volta, lento, misurato, l'orgasmo gli riempie il respiro e la pace cade su di me come una promessa di felicità.

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