Undici

13 2 0
                                    

MILA

Carlotta mi ha invitata a pranzo ma ho rifiutato, non ho fame, non ce la faccio neanche a parlare. L'ufficio è una bolla d'aria dove non arrivano i rumori, mi sento improvvisamente un'estranea, sono usciti tutti ma è come se fossero ancora qui a valutare segretamente il senso di Mila che urla, di Marco che silenziosamente risponde, viscido, inopportuno. Fisso il riquadro della finestra al mio fianco, guardo il cielo, le righe bianche che sbordano nell'azzurro, le rotte che gli occhi faticano a rincorrere. Non so che direzione prendere. Devo starmene rinchiusa qui per evitare tutti e invece vorrei scappare. Non è così che doveva andare.
Quando l'ho conosciuto mi aveva affascinata per la sua predisposizione all'ordine, per quel suo modo asciutto di parlare, per l'autorevolezza di cui ora abusa. Avevo sinceramente creduto di poterlo amare? Mossa dalla sua buona fama mi sono invaghita di lui, dei suoi modi così sicuri, persino dell'arroganza, ma poi? Sapevo benissimo che mi avrebbe divorata, fatta a pezzi, scartata.
La luce entra dalla finestra, sbatte sul vetro, mi ferisce gli occhi, li chiudo e mi ritrovo a seguire distrattamente quel riverbero chiaro appoggiato alla palpebra chiusa. Vorrei poterci leggere il disegno di una mano buona, comprensiva, lontana dal mio corpo eppure ancora così vicina alla speranza. Quella speranza che avevo da bambina, quando mi affacciavo al mare e cercavo il segno di una nave lontana e pregavo che tornassero tutti, che ricomparissero uno ad uno con la promessa intensa, sublime, di non lasciarmi più.
È il rumore della porta che mi distrae, mi giro e allora ci riprovo, chiudo gli occhi e strizzo le ciglia con le dita, ci spingo sopra coi polpastrelli, l'alone di luce riappare. Li riapro lentamente, ma l'ombra di Marco è ancora ferma sulla soglia. Forse ha sentito i miei pensieri, forse non posso più sottrarmi alla battaglia. È appoggiato allo stipite, si sta arrotolando le maniche della camicia. Cerco di mostrarmi calma anche se la bufera ha già iniziato a scollarmi di dosso ogni certezza, mi alzo, non posso, non devo mostrarmi spaventata.
«Cosa vuoi?».
Allenta il nodo della cravatta, sorride senza schiudere le labbra.
«Pensavo volessi fare pace».
Devo riuscire a tenere a freno la lingua, non devo perdere il controllo. Carlotta tornerà a minuti, tutti rientreranno a breve, devo prendere tempo, distrarlo un'ultima volta e poi decidermi, parlarne con Bollani, liberarmi di questo strazio.
«Andiamo a mangiare un panino, ti va?» chiedo con urgenza.
Sorride e si sposta, fa pochi passi che non emettono alcun rumore, gira attorno alla scrivania e mi raggiunge, è incredibilmente vicino.
«Una volta ti saresti già piegata sulla scrivania. Voltati, voglio il tuo bellissimo culo».
Arretro, ma ho la sedia puntata contro, non posso muovermi.
«Senti. Ragioniamo. Ho sbagliato io, va bene, ma ci dev'essere una soluzione».
Penso l'esatto contrario di quello che sto dicendo, vorrei urlarlo, ma ingoio le sillabe, i sentimenti peggiori. La mente si sbilancia in avanti travolta da fantasmi luminosi, accecanti. Sposta i capelli, mi afferra la nuca, resto ferma ma mi irrigidisco.
«Ti tiri indietro ma sei sempre pronta a farti avanti, è questo di te che mi fa impazzire».
«Marco, smettila».
Ti prego.
Gli appoggio una mano al torace, provo a frapporre un ostacolo tra me e lui, ma spinge con troppa forza. Mi afferra il polso, lo strattona, se lo porta dietro la schiena, lo ruota appena e il gomito manda la prima fitta di dolore. Cerco di spostarmi, mi dimeno, ma non trovo spazio. Ho la sua erezione puntata contro la coscia, lo sento ansimare. Il ginocchio è tra le mie gambe e si spinge in avanti. Un attimo dopo mi bacia, butto indietro la testa, mugolo, ma continua a baciarmi, non riesco a togliermelo di dosso. Sulla mandibola ho una scia di saliva, sulle orecchie ho i suoi bisbigli violenti.
«Adoro scoparti quando non vuoi».
Scava con le dita dentro la scollatura, mi sposta un seno, lo afferra con la mano libera, se lo porta alla bocca. Mi strapperei la pelle, se solo potessi farlo, ma il dolore al braccio è fortissimo e non riesco a muovermi.
«Sei una puttana, la mia puttana».
Ho la sua lingua in bocca, gli mordo il labbro ma non arretra neppure quando sento in bocca il sapore del sangue. Mi allarga le gambe, molla la presa pochi secondi ma riacciuffa in fretta le mani che cercano di aprirsi un varco e me le porta dietro la schiena. Chiudo le palpebre di riflesso, non voglio vederlo l'orrore del mostro che sale dalla bocca, che si affaccia dai denti, che invoca il mio nome un'altra volta ancora. Il rumore della fibbia della cintura mi è così familiare che mi sale un conato di vomito.
«Perché mi stai facendo questo?»

OUTSIDEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora