Diciassette

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MILA

Un vento freddo mi attraversa le gambe. Ha piovuto tutta la notte e stamattina mi sono alzata con le prime luci dell'alba. Ho evitato Sara, i suoi occhi misericordiosi, la mia sofferenza riflessa dentro il suo cuore. Questa mattina sono scesa in strada e ho attraversato la città di corsa. L'acqua scivolava sui palazzi, i piccioni nascosti sotto la palpebra dei tetti si pigiavano dentro un abbraccio involontario. Gli alberi gocciolavano con un tremore improvviso. L'odore del pane era il ladro che usciva dal retro di un negozio. Un motorino, verde mi tagliava la strada.
Avevo le scarpe da ginnastica ai piedi e una felpa che mi accoglieva come un contenitore vuoto. Sono tornata a casa e il fiato mi bruciava in gola, la pelle si era sciolta dentro il fuoco della fatica, il vento iniziava a soffiare scardinando le imposte. Mi sono vestita e sono scesa un'altra volta in strada, questa volta l'abito mi fasciava stretto, non ero più quella del mattino senza luce, ero di nuovo io, perfetta, intonsa, sovraccarica. Torno in scena. La porta dell'ufficio mi è parsa più leggera, anche davanti agli occhi di Dominique che mi aspettavano oltre la soglia. Mi sono seduta e l'ho guardato senza dire niente, ero incredula ma non riuscivo comunque ad impormi, a mandarlo via ancora. Stringeva in mano un raccoglitore nero, non una piega del viso, non un'espressione di disagio, mi guardava e basta.
«Devi vedere questo».
Fisso il foglio, la grafia minuscola, a tratti scomposta, priva di una punteggiatura adeguata. I miei occhi inquadrano la data, scivolo dentro le righe che si consumano in fretta, ingoio le parole come se dovessi riempirmi fino all'orlo. Alzo gli occhi e lo guardo.
«È un originale?».
Si spinge indietro, appoggia la schiena alla sedia.
«Sì. È la versione di Russo, quella che Marzia riscriveva e stampava poi su carta intestata. Il 16 marzo, come puoi vedere, hanno approvato il bilancio e basta. Non c'è altro e soprattutto tra i presenti non compare mia madre».
«È una follia. Non può essere».
«La follia può tutto».
Lo guardo mentre si alza, fa il giro della scrivania, appoggia le mani ai braccioli della sedia e si piega in avanti.
«Non riesco a guardare un'altra donna senza pensare ai tuoi occhi, non posso toccare un altro corpo senza convincermi che sia il tuo».
Si piega sulle mie labbra, ma non le tocca.
«È il tuo corpo che voglio».
Le sue labbra mi scivolano sul collo.
«Mila, credimi».
Si solleva e torna a sedersi come se non avesse detto nulla. La mia pelle è in fiamme, un terremoto si agita dentro il mio ventre, allargo le gambe scossa dal desiderio. Lo guardo, cerco i suoi occhi che però sono concentrati dentro i palmi delle mani. Si alza e raggiunge la porta.
«Andrò a parlare con Bollani».
«Aspetta».
Torna sui miei occhi e questa volta li attraversa con l'intensità che solo lui sa dedicare ai nostri sguardi.
«Dammi ancora qualche ora di tempo, ci dev'essere dell'altro e voglio scoprirlo. Bollani deve avere un panorama intero davanti, altrimenti non prenderà sul serio tutto questo. Non come dovrebbe, insomma».
«Non abbiamo tempo».
«Fidati di me. Ti prego».
Indaga i miei occhi e poi butta indietro la testa, sbuffa.
«Sei tu quella che non si fida, ma d'accordo, ti lascio libera di fare quello che ritieni più giusto».
Mentre cerco qualcosa di sensato da dire si gira e se ne va. Non abbiamo tempo. La consapevolezza delle sue parole mi riporta dentro il vuoto che ossessiona i miei giorni. Abbasso gli occhi. Osservo un'altra volta il verbale, attraverso con una mano la scrivania e apro la cassettiera chiusa a chiave. La copia stampata è in parte identica, i contenuti sono i medesimi, fino all'approvazione del bilancio. Poi compare il paragrafo dedicato alla Parker, solo allora viene citata Rossella Pratesi e solo in coda compare il graffio della sua firma. Un po' scentrata, un po' azzardata nella misura degli spazi tra una firma e l'altra. Adesso tutto mi sembra esageratamente finto e costruito. Solo adesso, ma non so se è suggestione o altro. Non posso crederci. Tra i fogli pescati dal cassetto compare una pagina piegata a metà. La apro e il profilo affilato di Rossella Pratesi mi taglia fuori da ogni insicurezza. Recherche.
Mi volto verso il computer, ripeto l'azione del giorno prima, scivolo dentro le immagini. Digito il suo nome, ripeto la ricerca associando la parola "recherche", più e più volte, ma non trovo niente. Ad ogni incrocio perdo la direzione e torno indietro. Scorro articoli, commenti, definizioni, navigo dentro un mare senza orizzonti. Appoggio il mento alla mano, fisso il monitor frustrata da una verità incompleta. Ripenso agli occhi di Dominique, a ieri sera quando mi guardava senza riuscire a rendermi una sola parola. Sento le sue mani che mi sfiorano, da cui provo a scappare senza riuscirci veramente, quelle mani che cercano conforto, che pescano dal mio corpo la guarigione. Digito di nuovo il nome di sua madre, cerco le stesse mani che toccano altri corpi, che premono. Ripeto l'operazione un'infinità di volte e mi perdo, come in un meccanismo perverso dentro cui continuo a interrogare sua madre. Clicco nervosamente, seguo link a casaccio, senza meta, solo per il gusto di non dovermi dare un termine, di non dovermi sentire nuovamente sconfitta. La freccia del mouse sfiora il profilo di un'immagine più piccola. Il giallo brillante della capigliatura attira i miei occhi. Nodi che si alzano come una corona. Clicco sulla miniatura e ritrovo quel sorriso, quel capo chino, quella mano. Visualizzo la fonte, apro il dettaglio e inizio a leggere.
Try again, author Susan Thompson.
Scorro immagini che mi riportano indietro scansionando ogni spazio di tempo. Seguo il percorso e realizzo ciò che fino a quel momento non ero riuscita ad ottenere. Poche righe per inerpicarsi dentro le vicende di un romanzo che una giovane autrice scozzese ha presentato al pubblico di una piccola libreria di Londra, un giovedì del mese di marzo, di un giorno 16 qualunque, in un anno che è dichiaratamente il 2012. A presentare l'opera Rossella Pratesi.
Resto assorta davanti all'appianamento del rebus, fisso il monitor premendo con il corpo verso la scrivania. Questa è una prova. Il verbale in originale è un altro pezzo mancante. Devo parlare con Bollani, ma devo anche fornire una causa, una colpa, una certezza.

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