Uno

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MILA

Cammino scalza sul pavimento freddo, la casa è silenziosa, la cucina vuota. Apro il frigo e non trovo niente di commestibile, ieri dovevamo fare la spesa ma siamo state talmente assorbite dalla necessità di starcene altrove che il solo fatto di doverci sfamare è passato in secondo piano. Mi siedo a tavola, fisso le mani in cerca di un obiettivo in grado di distrarmi, mi preme addosso un'ansia insolita. La serratura scatta alle mie spalle, barcollo sulla sedia, mi volto. Sara varca la soglia stringendo in mano un cartone di pizza e una lattina di birra.
«Vedo che la notte non ha portato consiglio, nonostante sia già pomeriggio».
Appoggia il cartone sul tavolo, la lattina rotola nella mia direzione, l'afferro per non farla cadere. Sara si siede al mio fianco, solleva i Ray Ban e li infila tra i capelli.
«Vorrei farti notare che è la seconda volta che mi abbandoni a inizio serata».
Mi sporgo in avanti, le bacio il collo in attesa di un'assoluzione.
«Il locale era così pieno che non ti ho vista, mentre andavo via».
Si allontana costringendomi a sollevare la testa.
«Io invece ti ho vista mentre venivi rincorsa da un Cristo senza croce... ma io mi domando, sei sicura di stare bene?».
«Il fatto è che con lui rischio di perdere completamente il controllo e...».
«E perdilo questo controllo, no? Uno così non ti capita mica tutti i giorni».
«Lo so, ma...».
Mi mostra la lattina di birra.
«Ne vuoi un goccino?».
Ignoro la domanda e la guardo di nuovo con urgenza.
«Cosa c'è? Hai gli occhi del cerbiatto a mezzo metro dal camion».
«Ho fatto un casino. Ieri sera, ho lasciato la borsetta al locale e dentro c'era il mio telefono e...».
«E?».
«Le mutande».
Si alza di scatto e butta in aria le mani, poi si dirige verso il mobile della cucina scompigliandosi i capelli.
«Tu! Sei! Il demonio!».
Torna al tavolo con un bicchiere vuoto e lo riempie spargendo schiuma ovunque.
«Ma non l'ho fatto apposta! Stavo uscendo dal bagno e lui era lì e io non ho capito più niente. Non te lo puoi neanche immaginare cosa è successo dopo».
Strabuzza gli occhi.
«Mi sottovaluti, ragazzina! Ho un'immaginazione che funziona piuttosto bene! E comunque questa cosa che in prossimità di un bagno vi eccitate come due conigli fa di voi dei sublimi pervertiti».
Finalmente avverto una rottura, l'involucro di tensione si spezza e comincio a ridere.
«Devo passare al locale, ma non ce la faccio. Vai tu. Ti prego, Sara, vai al posto mio. Io non lo voglio rivedere».
«Se ci vado io poi sai come va a finire?».
«No».
«Va a finire che me lo scopo sul bancone, i clienti chiamano i carabinieri, ci rinchiudono entrambi e tu devi venire in caserma a tirarmi fuori dai guai. Lo troveresti seduto al mio fianco, con le manette ai polsi e, niente, alla fine lo rivedresti comunque, capisci? Quindi no, non ti posso proprio aiutare».
«Tu guardi troppi film».
«E tu leggi troppe sentenze».
«Sara, io non so cosa fare».
«Mila, è semplicissimo: vai lì, lo guardi e se ti piace vi rivedete ancora, altrimenti prendi le tue cose e te ne torni a casa».
Con un sforzo che mi pare improvvisamente vano, sovverto la paura e la trasformo in energia positiva, in coraggio e determinazione.
«Hai voglia di farmi i capelli?».
Balza in piedi come se non stesse aspettando altro.
«Lisci o mossi?».
«Non lo so, vedi tu».
Esco di casa con una treccia appoggiata alla spalla, indosso un lungo vestito nero che mi lascia scoperta la schiena. Il tocco di Sara sta tutto nel panama che mi mette in testa prima di salutare.
Cammino sotto il sole e ringrazio mentalmente ogni passo che accosto al terreno. Non sento più nessuna paura, mi muovo senza barcollare, il piacere mi guida, la leggerezza mi accompagna. Sara è riuscita a restituirmi la serenità di cui avevo bisogno, devo affrontare un uomo inaspettato e non c'è niente di diverso dai soliti incontri che ho allacciato in precedenza e poco importa quello che c'è stato tra noi, lui non sa nulla di me esattamente come io non so nulla di lui.
Mi specchio dentro una vetrina e respiro a pieni polmoni l'umidità che sale dal terreno. Attraverso il vicolo dove ci siamo baciati poche ore prima, l'occhio si ferma su quella fetta di muro come se mi appartenesse per intero. Sento il cuore precedermi, cerco la vetrina del Cedar, cerco lui, ma tutto si ferma. La serranda è abbassata, il locale è buio. È il salto senza rete che mi frega, il vuoto sotto che mi inghiotte. Mi avvicino, fisso il vetro che mi restituisce un'immagine accartocciata, aspetto che qualcuno si porti via la delusione, perché da sola non credo proprio di farcela. Appoggio la mano per farmi ombra e guardo dentro, ma non riesco a vedere niente, fuori c'è troppa luce. Mi sfioro la fronte, abbasso gli occhi insoddisfatta. È inutile questo luogo non mi appartiene, qui c'è un muro, non una porta. Mi sfilo il cappello dalla testa, ci butto dentro gli occhiali da sole e spingo fuori tutta l'aria che ho in corpo mentre muovo l'ennesima ritirata.
«Non credevo ti saresti arresa subito».
È appoggiato allo stipite di una porta, pochi metri più in là. Indossa un paio di jeans dal taglio morbido e una camicia bianca. La barba gli incornicia il sorriso, accenna un rapido movimento con la testa.
«Accomodati dentro. Siamo soli».
È il nostro gioco e questa volta è lui a sfidarmi. Lascio andare le spalle, piego la testa di lato, finalmente sorrido. Mi avvicino, lui si fa da parte e mi lascia passare. Quando gli transito accanto il suo odore mi riempie il naso.
«Segui il corridoio, la prima porta a sinistra va dritta dentro il locale».

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