Dentro i miei spazi vuoti

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MILA

Con una mano mi sfiora un polso. Fa scorrere via la sabbia dalla mano, preme piano con un dito. Indossa un paio di pantaloncini corti ed è a torso nudo, non mi guarda negli occhi, controlla ogni movimento con cura senza mancare la presa.
«Ti sei calmata?».
«Quello che deve calmarsi sei tu».
Non so perché ogni sfumatura delle sue parole mi sembra improvvisamente inopportuna. Quei suoi occhi che si fanno da parte, che non mi guardano; quelle intenzioni da cui sale come una lancia la sola volontà di dettare regole, di zittire e ingabbiare, tutto di lui mi appare ora come un inganno.
Mi alzo in piedi, fisso il mare e il respiro mi muore in gola perché sotto ogni onda vedo apparire un'ombra. Ho caldo, scivolo dentro un gesto maldestro, sprofondo nella sabbia, raggiungo il mare che si fa schiuma attorno alle caviglie.
«Facciamo un bagno?».
«No».
«Mila, posso sapere cosa diavolo ti sei messa in testa? Sei voluta venire in spiaggia e adesso punti i piedi come i bambini viziati. Fammi capire, ti prego, perché sto iniziando a stancarmi».
Le sue dita sono dentro la piega del braccio, stringono con prepotenza fin quasi a farmi male. È quella presa, quella punta di dolore che si irradia dal nervo fin dentro lo stomaco, è quella scheggia che mi puntella addosso, è quello spasmo che mi fa ingoiare le parole e trattiene a stento la paura. Il mare ci parla addosso, tra le onde che si muovono come mille mani e invece noi no, noi non riusciamo a comunicare senza farci del male.
«Perdonami, sono io che non funziono come dovrei».
«E come funzioni?»
Non realizzo che devo far parlare l'altra Mila, che devo rendergli una risposta onesta, sincera, non penso a nulla, il cuore affonda, scivola via. Piego la testa, mi lascio cadere indietro, il gelo spinge sul cranio, dentro le orecchie, avverto la liquidità senza appigli e poi riemergo sostenuta dalla sua presa, da quelle dita che mi sfilano dalle correnti e mi riportano a galla.
È venuto a prenderti. Non ti ha lasciata andare.
Il calore mi abbandona e il fiato finalmente si libera di ogni pesantezza. Gli afferro le nocche della mano, come se dovessi convincerlo, sfioro quella pelle tesa e mi ci aggrappo. Mi guarda con occhi nuovi, ha una nuova dolcezza nei lineamenti, gli accarezzo la guancia che gocciola. Il sole trafigge quella visione e per un breve istante non lo vedo, mi sento improvvisamente sola, assalita da non so quali paure, sposto allora il peso sulle gambe, cerco stabilità e, non trovandola, mi siedo a terra, dove il mare va e viene e la sabbia sale tra le cosce. La sua ombra si allunga, mi segue, mi restituisce una presenza che si spinge in avanti con tutto il corpo.
«Con te vorrei fare cose normali», dico in un sussurro.
«Tipo?».
«Uscire, andare a ballare».
Ogni parola scivola fuori con naturalezza. Si volta di nuovo verso il mio corpo, lo guarda e sembra valutare una risposta in grado di convincermi.
«Se è quello che desideri lo avrai. Alle volte basta chiedere, Mila».
Un'onda nuova mi scivola addosso, penso che potrei definitivamente sparire, ma poi non lo faccio. Non lo faccio mai.

DOMINIQUE

Mi sono arreso all'attesa, la spiaggia in lontananza sembra un nuovo pianeta su cui nessuno ha ancora provato a sbarcare. L'aria attraversa la camicia, sfida la pelle. Il mare assorbe l'ultimo strato di luce dentro l'increspatura delle onde. Le gambe stese sul prato, la fronte poggiata all'orizzonte. La finestra alle mie spalle si chiude con un lamento.
Muove passi instabili, i tacchi sono sottili e l'abito è rosso. Il taglio del tessuto sul seno sembra uno squarcio, gli occhi non si danno pace perché non riesco a trovare un punto esatto su cui posare l'attenzione. I polsi sono stretti dentro due grossi bracciali d'argento. La tentazione di spingerla un'altra volta in camera mi preme sulle mani.
«Sono pronta».
Sposta una sedia ed è come se si lasciasse cadere perché l'immagine del suo corpo che si adagia mi appare velocissima, cede in modo inatteso, di colpo.
«Tutto bene?» chiede perplessa.
Si piega in avanti, di poco, il profumo dei suoi capelli si sposta nella mia direzione.
«Dovresti tornare dentro e vestirti».
Lo dico con un sussurro, lei di rimando scoppia a ridere.
«Credevo avresti apprezzato».
Affondo le mani sul prato, faccio leva sui polsi e mi alzo di poco, il poco che serve per poterla toccare. Le bacio l'incavo del seno, così esposto da sprigionare un calore violento.
«Là fuori c'è un popolo di pervertiti pronto a cadere ai tuoi piedi».
«Non c'è spazio per gli altri, ci sei già tu».
Alzo gli occhi, mi fissa e sorride.
«Mi stai dando del pervertito?».
«Tu lo dici».
«Avvocato, non mi provocare».
Le sue labbra mi sfiorano la fronte. Avverto la cura delle mani sul viso, il calore della bocca dentro un gesto che ha la stessa generosità di un abbraccio.
Si alza e la seguo, dopo pochi passi si ferma, scivola sotto il gomito, appoggia la testa sulla spalla e procede piano trascinandomi via. La macchina ha contorni scuri, la luce che degrada dentro una moltitudine di strati di colore assorbe ogni possibile parola.
Svolto verso Porto Santo Stefano, seguo le indicazioni che mi ha fornito Anthony, la strada si esaurisce in poco tempo, il mare è sempre davanti a noi, scosso da poche onde. Parcheggio di fronte al ristorante, scende per prima e non mi dà il tempo di raggiungerla. Si ferma a pochi metri dalla porta, resta di spalle, fissa il mare come se lo stesse interrogando. Un cameriere mi viene incontro, ci scambiamo poche informazioni, poi si avvia e mi accompagna al tavolo che non è posizionato dentro il ristorante, ma direttamente sulla spiaggia. Anche su questo Anthony non si è limitato nel fornire dettagli superficiali, ma ha dato specifiche coordinate, devo ricordarmi di ringraziarlo come si deve. Gli occhi di Mila mi cercano, il cameriere mi serve un sorso di vino, lo annuso, annuisco e lo seguo con lo sguardo mentre rientra a passi spediti.
«Spero non ti dispiaccia ma il menù è fisso».
«Scelta aziendale o iniziativa personale?».
«Accordi, Mila. Ho preso parecchi accordi che ti riguardano».
«Potresti mettermi persino paura».
«Mi piace solo prendere delle decisioni preventive. Tutto qui».
«Mi sarei stupita del contrario».
«Secondo giudizio velato. Prima ero un pervertito, adesso sono un prepotente».
Non risponde, fissa il mare. La luce delle torce ci restituisce il calore della giornata. Il cameriere torna con una portata mentre continuiamo a restare in sospeso. Le sue mani indugiano sulle posate, mi guarda, è assorta dentro qualche pensiero impenetrabile, abbassa gli occhi e inizia a mangiare. Fatico a riconoscere in lei una sola identità, c'è una parte di Mila che vorrei separare dalle altre, per individuare quello che di lei mi attira così fortemente.
«Dimmi di te».
Fa una faccia stupita e poi si sforza di sorridere.
«Tipo?».
«Tutto».
«Non basterebbero diciotto giorni».
«Potrei provare a limitare le domande».
«Vuoi rubarmi il lavoro?».
«Dubito di possedere la calma necessaria».
Sospira e appoggia i polsi al tavolo.
«Se ti limiti a fare domande semplici, forse ce la caviamo in due portate».
«Perfetto. Perché fai l'avvocato?».
«Dev'esserci un perché?».
«C'è sempre un perché».
«Sembri una specie di guru del pensiero volontario».
«Se rispondi così ad ogni domanda non ce la caviamo di sicuro in due portate».
Prende il bicchiere, beve un sorso di vino e finalmente sorride con più convinzione.
«Mio padre è avvocato, mia madre è avvocato, tira le somme».
«Sei sempre così carica di giudizi o sono io che ti porto ad abusarne?».
Gioca con il bordo del tovagliolo, sorride di nuovo ma questa volta non mi cerca con gli occhi.
«Mio padre ha uno studio legale a Prato, mia madre invece ha lasciato la professione da parecchi anni».
«E tu?».
Si guarda le mani, cerca una risposta adeguata, mi fissa.
«Perché tutta questa curiosità?».
«Sto praticando dell'ottima conoscenza. Possibile che non ne sai nulla di buone maniere?».
Tamburella con le dita sul tavolo, poi sembra convincersi e sorride.
«Mio padre è un uomo pieno di pretese, io non sono come lui e forse non gli sono mai sembrata all'altezza».
«È per questo che non lavorate assieme?».
«Le giuste distanze, no? I miei genitori hanno una missione: salvarmi» fa una pausa, si guarda un'altra volta le mani, sorride di nuovo «ma li ho convinti che non è indispensabile farlo. Quando sono riuscita a entrare allo studio di Bollani si sono seduti in disparte ad osservare. Credo stiano aspettando che torni indietro».
«Ecco da dove nasce la tua spietata predisposizione alla fuga».
Il cameriere porta via i piatti e ci serve dell'altro vino. La luce entra nel bicchiere come un raggio di sole. Le sue dita lo accarezzano piano, scorrono sul bordo e poi scendono lente. Mi avvicino al tavolo, allungo un braccio e le afferro la mano. Il bicchiere traballa.
«Io non scappo. Cerco spazi dentro cui rintanarmi provvisoriamente».
Gioca con le mie dita, accarezza le nocche. Il cameriere ci raggiunge con i piatti. Mila stacca la mano dalla mia e torna a guardarmi da una distanza che trovo insopportabile.
«E li trovi? Questi spazi, intendo...».
«Quasi sempre».
«Tipo le stazioni dei treni?».
Ride.
«Anche. Vado spesso al Giardino dei Semplici, verso l'interno ci sono gli angeli. Dovresti andare a vederli. Poco sotto c'è una panchina piena di scritte, tra le mille incisioni ce n'è una mia, è lì che mi siedo a leggere».
«Devo prendere appunti?».
Sorride ma non perde il ritmo e prosegue col racconto.
«Poi c'è l'altalena di Prato, quella accanto al teatro, devo solo sperare che non ci sia la solita fila di bambini in attesa. Poi la biblioteca di Firenze, primo piano, terzo scaffale sulla sinistra: letteratura inglese» fa una pausa, mi guarda e prende fiato «e poi c'è la soffitta della casa a Quercianella, era dei miei nonni, un pezzo di mondo antico».
Parla della sua storia senza freni e finalmente è la Mila che voglio.
«E dietro queste fughe c'è una strategia?».
Si ferma, deposita la forchetta nel piatto e mi guarda incuriosita.
«Non ci ho mai pensato. Può essere. Scappo perché devo liberarmi da qualcosa che mi spaventa, ma poi resto sempre in attesa che arrivi qualcuno».
«E quel qualcuno ti raggiunge mai?».
Fa quel gesto, si tocca la frangia con le dita e sposta gli occhi dentro il buio del mare, è come se volesse impedire a qualcosa di uscire. È lo stesso gesto che le ho visto fare la prima volta che ci siamo incontrati; è quel gesto che un giorno ricorderò pensando a lei.
«No. Torno sempre da sola. Le mie sono fughe impossibili».
Mi alzo e la raggiungo, sposto la sedia da sotto il tavolo.
«Hai ancora fame?».
Alza gli occhi al cielo.
«Non vorrai tornare subito in camera?».
Sono in piedi, la tiro su di forza e la circondo con un abbraccio.
«Malfidente».
Mi allontano di un passo, strattono il braccio e mollo la presa. Perde l'equilibrio, mi fissa in bilico tra le mie braccia e il suolo, la testa a pochi centimetri dalla sabbia.
«Se vuoi ballare con me devi allenare i riflessi, mia cara».
Sorride e negli occhi si apre uno squarcio di luce e in quel momento mi sento parte di un potere legittimo, mi riprometto di ricordarmela ancora questa sensazione di onnipotenza mossa da un solo essere umano, ma so che non accadrà, so già che non sarà così.

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