Libera

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MILA

Con una mano cerco di ripararmi dalla luce. Ho sonno, non voglio alzarmi, non voglio affrontare un'altra giornata di lavoro. Apro gli occhi e l'immagine è ancora appoggiata alla
palpebra. Non so neppure perché l'ho fatto. Sono furiosa, Marco governa da mesi la mia vita e io glielo lascio fare, perché ha quella faccia senza ombre e senza storia, perché la sua indifferenza sul lavoro mi istiga, perché non si cura degli altri, perché ottiene sempre quello che vuole. Eppure sono stanca, con lui mi sento malata, mi sale la tosse, si gelano le mani. Ha una pelle su cui si scivola e io invece voglio sprofondare nella carne, divorarla, farmi accogliere.
Ieri sera ho alzato lo sguardo e c'era un altro uomo, perfetto in ogni linea, e c'erano quegli occhi che erano come spilli piantati nella pelle, sentivo un dolore che saliva e mi incitava ad alzarmi, come se davanti a lui, vicino a lui, tutto potesse eaurirsi. Mi guardava senza sorridere, senza accennare un invito, gestiva l'attesa con sicurezza. La voce di chi mi stava accanto si allontanava, anche le idee mi sfuggivano dalla testa. Le attenzioni inconsistenti arrivavano dal profilo scuro di uno sconosciuto, il viso spigoloso, la sagoma lunga, le spalle larghe che accoglievano cerchi di capelli castani. Volevo sparire dentro quell'oscurità, usarmi per non doverlo lasciar fare agli altri, volevo vendicarmi dell'indifferenza di Marco, del suo non volermi prendere completamente.
Il torace, asciutto, teso, il calice in mano, tutto quello che vedevo sembrava sfuggire alla luce. I capelli sfioravano le ciglia, la barba circondava le labbra. I tatuaggi fuoriuscivano scuri dal colletto della maglietta grigia. Di lui ho visto tutto senza aver visto nessuno.
Sposto le lenzuola e mi alzo. La mia immagine dentro lo specchio mi appare strana. Sul collo c'è un'abrasione leggera. Mi avvicino, guardo meglio, sfioro la pelle e il fastidio si tramuta in piacere. Ripenso ai suoi occhi scuri, sento ancora le mani strette sui fianchi, ostinate in ogni movimento. Toccava tutto di me, teneva tutto di me. Il seno, è pieno, sodo e poi c'è la mezzaluna rossa dei suoi denti che mi fissa, incisa poco sopra.
Mi ha trascinata via per pochi minuti, si è preso i miei pensieri e li ha stracciati. Mi è piaciuto averlo alle mie regole, allontanarmi dalla mia pena, perdermi nella folla, decidere. L'adrenalina che ho provato poi, mentre tornavo in strada mi ha caricata al punto che, una volta a casa, ho scalciato le scarpe sotto il letto e sono scoppiata a ridere, impietosa.
Ho bisogno di un caffè.
Sara è seduta sul divano, mordicchia la punta di un cucchiaino mentre sfoglia svogliatamente gli appunti della lezione. Stamattina ha un esame, ma da come si attorciglia i capelli attorno alle dita capisco che sta cercando una scusa per non andare. Il nostro convivere da più di due anni ha reso evidenti le mancanze di entrambe ed è immediata la resa, non servono giustificazioni.
Ci siamo incontrate nella luce bianca di un'aula universitaria. Io cercavo il professore per farmi registrare un voto e lei litigava furiosamente con l'assistente. Ricordo ancora quel gesto carico d'ira, ricordo di come ha buttato a terra i libri, di come mi ha afferrata per il polso e trascinata via.
«Non toccarlo. È uno stronzo!».
Davanti alla macchina del caffè si era poi messa a cercare nella tasca della giacca un pugno di monete.
«Caffè? Tè? Me?».
Io la fissavo incredula e al tempo stesso non riuscivo a smettere di sorridere.
«Non siamo in un film e tu non sei Melanie Griffith».
«Melanie chi?».
Sara allora aveva iniziato a parlare della mia intelligenza, io non l'avevo mai notata e lei invece sapeva tutto di me.
«Fossi lesbica ci proverei, ma per tua sfortuna mi piacciono i coniglietti», aveva detto strizzando un occhio.
Alla mia laurea si è presentata vestita da cow-boy, i suoi fischi a farmi da sponda e le urla dei nostri amici a riempire la strada. Mi sono bastati pochi mesi per iniziare il praticantato presso il più importante studio legale di Firenze. Io avanzavo rapida verso la mia carriera mentre lei rimaneva indietro, tra gli esami che prometteva di dare e i corsi di recitazione che frequentava assiduamente. Il palco è sicuramente l'unico posto in grado di confinarla. L'ho vista recitare, si impossessa degli occhi di chi la sta a guardare, è un animale che ha bisogno di luoghi sicuri dentro cui scavarsi una tana.
Gioca con il ciuffo di capelli che le scende sul sopracciglio, alza lo sguardo e appena mi vede balza in piedi. Indossa una t-shirt rosa che le copre a malapena il sedere e degli orrendi calzini gialli. Mi afferra per i polsi spingendomi dentro i cuscini del divano.
«Tu adesso mi racconti tutto. Ti ho vista, sai? E ho visto anche il santone con cui ti sei chiusa in bagno a pregare».
«Ma non avevi un esame stamattina?».
Sposta i libri con un calcio, mi passa il caffè e si siede sul tavolino incrociando le gambe. Le sue ginocchia mi interrogano più degli occhi.
«Non ci vado all'università e adesso smettila di fare la scema e parla».
«Mi sono divertita, non ho niente da aggiungere a mia discolpa».
«Avvocato, il suo divertimento è sempre gradito, ma la domanda che la giuria le rivolge è un'altra: di chi stiamo parlando? Chi è l'uomo con cui si è appartata ieri sera?».
«Non lo so».
«Amore, non ti ho chiesto il numero di telefono, ma se me lo vuoi dare lo prendo volentieri».
«Non ho un numero di telefono».
«Dammi nome e cognome, te lo rintraccio in un paio d'ore».
«Non so come si chiama».
Sara mi toglie la tazzina di mano, l'appoggia sul tavolo e mi guarda dritta negli occhi.
«Stai scherzando, vero?».
«No».
Mi passa un braccio attorno alle spalle e con un gesto rapido della mano si scansa i capelli dalla fronte.
«Ma sì! Hai ragione! Cosa te ne fai di uno così, se ci sono qui io a farti i grattini, mh?».
Mi bacia sulla guancia e poi si spinge verso l'orecchio.
«Scopa bene?».
«Non lo so».
Balza di lato, afferra un cuscino e scivola dentro una pausa che sembra toglierle di bocca il respiro.
«Bugiarda».
«Sei libera di non credermi, ma è andata proprio così».
«E che avete fatto allora? Il disegno di un piano astrale?».
Scoppio a ridere, perché ogni suo squilibrio è un atto di meraviglia che mi riconsegna alla realtà. Le afferro le mani e me le porto a pochi centimetri dalla bocca.
«Diciamo che ho fatto tutto io, esercitando su di lui un piacevole potere».
Alza il sopracciglio e ride.
«Parli di lui al passato, te ne rendi conto, vero? Bene, mi sembra un ottimo modo per contrastare la noia» si alza di scatto e mi guarda. «Fila a vestirti che usciamo!».
«Non posso, mi aspettano in studio, lo sai».
«E se non ci vai? Non mi sembri poi così brillante, oggi».
Vorrei poter scherzare anch'io del mio lavoro, ma se mi sale in bocca un sorriso brucia sulle labbra come una bestemmia. Ho faticato tanto per arrivare dove sono, per ritagliarmi uno spazio accanto ad uno degli avvocati più affermati di Firenze. È la vita che inseguo da sempre e ogni pulsione emotiva la ricaccio indietro come un'offesa. Sara sembra ricongiungersi al mio pensiero e mi porge una mano.
«Dai, ti aiuto a scegliere i vestiti».
Mi accompagna in camera e scompare con la testa dentro l'armadio, apre scatole, svuota cassetti, borbotta maledizioni.
«Oggi è il primo venerdì del mese, puoi presentarti dall'imperatore Marcolino bellissima e sessualmente appagata. Gli verrà duro in mezzo secondo e dovrà metterlo nel tritacarte per darsi pace».
Mi muovo bruscamente, volto le spalle allo specchio, alle scarpe buttate dietro la porta, alla giacca di pelle appesa maldestramente. Marco è uno degli avvocati dello studio, fatico a riconsiderarlo in altro modo. Malgrado tutti i miei tentativi di fuga, continuo ad esserne subalterna.
Sara solleva in aria un paio di sandali con il tacco alto e le fibbie che si incrociano sul collo del piede.
«E io come ci arrivo in ufficio? Hai visto che tacchi sono quelli?».
«Ti chiamo un taxi, che problema c'è?».
L'espressione distratta di Sara mi convince più della mia scontenta, fuori fuoco. Vado in bagno, entro nella doccia, apro i rubinetti nervosamente. L'acqua mi corre sulla schiena e il corpo si ammorbidisce appena. Mi volto, il vapore entra nel naso, l'acqua calda riempie gli occhi. È un attimo. Ripenso alla barba che mi carezza la guancia, al suo respiro sciolto tra i capelli, alla lingua che scende sulla clavicola e ne disegna i confini, alle dita piantate nella nuca. Scrollo la testa. Afferro il rubinetto e lo giro in fretta verso il trattino blu. Una scarica di gelo mi percorre come una scossa elettrica. Urlo ed esco di corsa dalla doccia.
Sara entra spaventata.
«Sei impazzita?».
«Sì. Credo proprio di sì».

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