Liberami

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MILA

È seduto sul cofano della macchina, mi guarda mentre butto le borse sui sedili, alla rinfusa.
«Ce la fai a guidare fino a casa?».
Alzo la testa, i capelli gli nascondono le tempie, ha uno strano disordine addosso.
«Ho una patente valida. Vuoi vederla?».
Sorride.
«No. Ma se guidi come gestisci i dialoghi in famiglia allora faccio bene a dubitare».
«Tu non sai niente di noi».
Mi mette una mano sulla bocca.
«Hai ragione. Sono l'ultimo che può giudicare. Perdonami».
Sposto il viso di lato, mi libero dalla presa e poi mi avvicino di nuovo, con il naso sprofondo dentro la riga nera del tatuaggio sul collo.
«Andiamo, non voglio che guidi di notte».
«Smettila di trattarmi come una bambina».
Ride, si spinge in avanti e mi apre la portiera.
«Ti aspetto in albergo».
Salgo in macchina e lo guardo.
«Ci penserò».
Si abbassa, entra con la testa nell'abitacolo, mi sfiora il naso con le labbra.
«Non pensarci troppo, potresti non trovarmi più».
Si ritrae in fretta e chiude la portiera. Resto ferma a fissarlo mentre raggiunge la Porsche e mette in moto sollevando un'alta scia di polvere che copre quasi completamente le colline all'orizzonte.
Il primo tratto guidiamo piano, attraversiamo le stradine del borgo, rallentiamo nei pressi di ogni strettoia e ci fermiamo ad ogni incrocio, anche se la strada è sgombra per chilometri. Dopo un altro tratto che trovo di una lunghezza insostenibile raggiungiamo finalmente la statale. Stremata dal tempo e dalla noia provo ad accelerare, ma freno di scatto perché Dominique si mette in mezzo, fa questa cosa di rallentare che non gli riconosco e che mi impone di stare al passo. Presa dall'esasperazione provo a superarlo, ma intercetta il tentativo, si spinge oltre la corsia mettendosi di traverso. Mi costringe a rientrare, a stargli dietro. I suoi occhi nello specchietto mi osservano, lo vedo benissimo anche se fingo di non guardarlo. Non sopporto di essere trattata come una ragazzina incapace. Ci hanno già pensato i miei genitori a farmi sentire inadeguata e io non ho dato nessuna dimostrazione di coraggio nel vano tentativo di evitare complicazioni. Subisco ancora il giudizio di mia madre, anche se mi innervosisce quando finge indifferenza, quando non concepisce l'ironia, quando si inerpica dentro frasi insensate che la rendono sciocca. Mio padre si sarà già fatto la sua idea su Dominique, resto pur sempre la sua unica figlia e questo gli permette di rovistarmi dentro in ogni modo. C'è quel dannato senso di riconoscenza che non riesco a togliermi di dosso e che mi impigrisce davanti a qualsiasi decisione. La questione di Bollani l'affronterò a cose fatte, per ora devo solo impegnarmi a sbrogliare i sentimenti che mi ingombrano l'esistenza.
Le luci rosse della Porsche lampeggiano ancora, freno un'altra volta, ma sono stremata, voglio arrivare a casa, depositare i bagagli e trascorrere tutto il resto del tempo con lui, non voglio dover scandire i chilometri uno ad uno, passeggiare tra i minuti come se non provassi alcuna urgenza di arrivare. La mia macchina non può niente contro quella di Dominique e l'unica possibilità che ho è quella di sfruttare l'imprevisto. La corsia di sorpasso si popola improvvisamente di camion, rallento e lascio che la Porsche si spinga in avanti, mi bastano pochi secondi per combattere ogni insicurezza e rimettere in moto la rivoluzione. Controllo lo specchietto e, d'improvviso, senza badare troppo alle conseguenze delle mie azioni mi butto fuori spingendo più che posso sull'acceleratore. Sfrutto l'ombra di un camion che mi precede e in pochi metri riesco a buttarmi in avanti. Dominique prova a seguirmi ma un secondo camion si mette in mezzo e lo costringe a rientrare. Riesco a staccarlo, a togliermelo di dosso. Continuo a correre senza darmi un limite, posso giostrarmi dentro questo spazio vuoto guidando a tutta velocità, senza nessuna inibizione addosso. Cerco di sfuggire ai pensieri che mi rincorrono, ai fantasmi che confabulano e che fingo di non vedere.
Corri, Mila! Corri!
Sento vibrare il telefono, infilo gli auricolari e neppure lo guardo chi sta chiamando, perché so già con chi dovrò confrontarmi.
«Dimmi».
«Cosa diavolo ti è saltato in mente?».
«Ho una certa fretta di arrivare».
Dominique chiude i vuoti che il mio cuore ha improvvisamente riaperto.
«Adesso rallenti e mi aspetti».
La punta d'ira che gli riempie la voce cancella ogni pensiero oscuro, ogni ricordo, sento solo il suono del suo sentimento così incostante che mi ronza sotto il mento e si insinua ovunque. Alzo gli occhi verso lo specchietto e lo vedo arrivare con un rombo che lo anticipa di poco. La sua mano che esce dal finestrino, la sigaretta sciolta dal vento, mi supera e lo lascio andare.
«Mr Porsche ti vedo in forte difficoltà».
Fa una pausa, ride e poi riattacca. Riconosco Firenze in lontananza. Apro il finestrino e lascio entrare l'aria, non è ancora buio, questo intermezzo di luce mi brucia gli occhi. Lo vedo armeggiare sul sedile, si accende un'altra sigaretta e allunga il braccio fuori, torna ad accarezzare l'aria. Siamo in città, svolto al primo semaforo mentre lui prosegue dritto e, in quel rapido distacco, il cuore si spinge fino in gola e poi ricade giù, dentro lo stomaco. Qualche secondo dopo sono già dentro il garage, scendo dalla macchina con il vestito avvolto attorno al collo e le borse ammassate tra le braccia. Non mi importa dell'ordine, non mi importa di niente, voglio salire in casa, raccontare a Sara della serata e ripartire. Entro in casa con l'affanno, la gola secca e un'ostinata stanchezza che mi preme sulle ossa ma, contro ogni previsione, non trovo nessuno ad aspettarmi. Porto tutto in camera, rovescio le borse sul letto e torno in cucina. Di Sara non c'è traccia, prendo il telefono e provo a chiamarla ma non risponde. Vado in camera sua ed è vuota, controllo il calendario appeso sopra la scrivania, si è segnata tutti gli spettacoli e stasera ne ha un altro. Ultimamente riusciamo a parlare poco e a vederci ancora meno. La vibrazione del telefono mi toglie di dosso ogni pensiero.

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