Tredici

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MILA

Entro al Blue Velvet, sono in ritardo, ho girato per tutti i negozi di Firenze in cerca di un regalo e adesso stringo in mano un pacchetto foderato di verde. Mi avvicino ai tavoli, sfrondo le teste, varco la ressa dell'ennesimo addio al nubilato. Finalmente la intravedo all'angolo della sala, è accerchiata da ragazzi che non conosco, indossa un cerchietto con due antenne a molla. Si perde dentro movimenti esagerati, alza gli occhi e intercetta la mia presenza a pochi passi da lei. Spinge in aria le mani, supera due ragazze sedute al suo fianco e mi viene incontro. Ci abbracciamo come se non ci vedessimo da giorni, come se non l'avessi sentita poche ore prima. Ride mentre mi gorgheggia sul collo un lamento.
«Mi sei mancata!».
«Esagerata».
«Guarda che non scherzo, temevo non saresti venuta».
Alzo il pacchetto in aria e glielo mostro con aria divertita.
«Auguri!».
Come una bambina impaziente strappa la carta, apre la scatola e inizia a saltellare sul posto.
«Le mie bimbe adorate! Fiori e borchie! Non ci posso credere! Sono meravigliose!».
Si siede sull'orlo di un divanetto, sfila in fretta i piedi dalle scarpe col tacco e li spinge dentro un paio di All Star customizzate.
«La ricerca è stata faticosa ma dopo svariati tentativi ho trovato un ragazzo che me le ha personalizzate al momento!».
Complici in ogni gesto raggiungiamo il tavolo dov'era seduta e ci lasciamo ingoiare dal caos.
«Ragazzi! Questa è Mila, la mia superamica! Mila questa è una ciurma di pessimi attori che ama molto bere e ballare! Te li raccomando, uno ad uno».
Urla di approvazione si alzano dal tavolo, qualcuno si gira a guardare, mi guardo attorno, sono stranamente a mio agio, sfioro il braccio del ragazzo moro seduto al mio fianco. Si volta, mi lancia una rapida occhiata e poi fa cenno al tizio seduto di fronte ldi passarmi un bicchiere.
«Io sono Pietro. Peter, per gli amici... ma non lanciarti in confidenze perché devo ancora decidere se puoi essere mia amica».
Inizio a bere, un bicchiere dopo l'altro riempio il vuoto, ma non mi sento mai completamente sazia e allora mi ostino, ordino un'altra bottiglia e poi un'altra ancora. La compagnia approva, Pietro si alza in piedi, mi indica e urla «sono gay, ma questa donna è mia!». Solo dopo più di un'ora inizio a sentirmi bene, non avverto più alcuna forzatura, rido e mi muovo con confidenza buttandomi addosso a tutti. La voce di Pietro mi squilla in faccia con disperazione. È innamorato di Michael un ragazzo di Liverpool che non può rivedere perché i rispettivi spettacoli distano chilometri l'uno dall'altro. Lo abbraccio con trasporto, il vino carica le emozioni di entrambi.
«Dio come ti capisco! Il cuore a pezzi è una cosa che mi sta così bene addosso».
Biascico pensieri sconclusionati e lui con me, ridiamo continuando ad abbracciarci. Sara si alza in piedi e inizia a ballare sul posto, Pietro la segue e la spinge oltre la sedia trascinandola in mezzo alla sala. Mi sollevo pesantemente, appoggio la schiena al muro, mi gira la testa, le luci mi entrano negli occhi come una fucilata. Li guardo mentre si muovono dentro gesti inauditi, la gente si ammassa ai bordi, qualcuno è infastidito dalla loro invadenza e loro neppure ci fanno caso, continuano a seguire il ritmo della musica, a saltellare dentro le linee colorate che i laser disegnano a terra, a sbattere l'uno contro l'altro.
Le falene cercano la luce, se chiudi gli occhi senti il rumore sordo che fanno buttandosi violentemente contro la lampadina.
Toc.
Volano le falene nel buio e si perdono, ma poi alla prima luce tornano.
Toc.
Se la luce però è un'altra si dirigono altrove, ma a loro sembra sempre di tornare a casa.
Toc.
Non lo sanno che in realtà sono dirette altrove, a loro basta la luce. Quella piccola luce là in fondo.

La vedi?
Me lo diceva mio nonno e indicava il mare, e cercava il faro che andava e veniva.
Sì, nonno. La vedo.
Se guardi lì non ti perdi mai. Torni sempre a casa. Non perdere la luce, Mila.

Dominique è un punto buio, un pozzo fondo. Sposto le facce come cartoline. Sono tutti diversi. Dominique non è quello appoggiato al muro, no, quello mi guarda ma non mi vede. Non è neppure quello seduto tra due donne, stretto dentro quattro braccia. Dominique è l'altro, quello accanto, quello che si è fermato a pochi passi da me, quello che se ne sta abbandonato a se stesso e riesce ad isolarsi in mezzo ad una furia impazzita di persone. Quello che mi fissa e non smette di farlo neppure adesso che lo fisso anch'io. Sono in dubbio se credere o meno all'immagine che la mia fantasia proietta ovunque. Forse è il vino che mi sta facendo collassare, forse è il desiderio che tira fuori ricordi inauditi. Indossa una maglietta nera e un paio di jeans stretti, il tatuaggio gli sale lungo tutto il braccio e poi scompare dentro la piega del tessuto. Con la mano sfiora la tempia poi molla la presa e spinge le dita dentro la tasca dei pantaloni. Quegli occhi, quella bocca, sono miei. So che non devo perdere tempo, ma non trovo il coraggio per muovermi. Si alza, scivola oltre il bancone e si immerge tra la gente. Mi sposto in cerca del suo profilo ma non lo trovo. Non posso perderlo un'altra volta e se anche fosse una visione la voglio alimentare ancora. Spingo da parte alcune ragazze, mi butto in avanti scomposta, inciampo più volte. Al centro della pista ritrovo Pietro che mi abbraccia da dietro e inizia a baciarmi il collo, mi spinge contro il bacino, mi afferra per i polsi e se li porta contro il torace. Lo assecondo per non essere brusca e appena abbandona la presa mi allontano spedita. Arrivo al bancone ma Dominique non c'è. Neppure un'ombra è rimasta a consolarmi. Mi muovo pesantemente, ruoto gli occhi tra la gente, vorrei spegnere ogni luce, zittire ogni rumore. Alcune ragazze mi accerchiano, sono bionde, sembrano spettri da cui vorrei solo allontanarmi, ma mi gira la testa e non so cosa fare. Devo uscire, prendere aria. Imbocco il corridoio da dove arriva il bagliore dei neon, scavalco una sedia rovesciata e mi spingo in avanti appoggiando la mano alla parete, guardo a terra perché ho troppa paura di cadere. Quando rialzo lo sguardo sbatto violentemente contro i suoi occhi, dentro la testa rimbalza per l'ennesima volta il dubbio dell'illusione. Un attimo dopo ogni perplessità si dissolve, ho il suo fiato sulla nuca. La gente attorno a noi salta, balla. Mi sposta in avanti, lascio che sia lui a guidarmi, so che non ho nessun potere e, anche se lo avessi, non lo eserciterei comunque. Raggiungiamo il corridoio, supera la colonna di donne in fila, non sente le urla di disapprovazione e io riesco ad ascoltare solo il rumore delle onde che si infrangono dentro la mia testa. Muovo un passo di lato, sbando contro il muro, spingo una porta e lo tiro dentro. Faccio scattare la serratura, non mi concedo il tempo neppure per guardarlo, gli afferro la maglietta, la sollevo, voglio controllare ogni centimetro di pelle, devo sentirne il profumo, riconoscere il sapore della lingua, la perfetta simmetria dei denti. Mi ordino di fare tutte queste cose ma a stento respiro, stringe i polsi, li strattona bruscamente. Non smette un secondo di baciarmi, la nuca, il collo, il seno, evita la bocca, naviga attorno alle labbra ma non affonda. Mentre smanio dal desiderio di potermi avventare su di lui, alza la gonna, abbassa gli slip e mi entra dentro con due dita.
«Sei bagnata».
La mia risposta è un gemito.
«Per chi?».
La domanda si perde dentro la testa perché sono frastornata da tutto quello che mi sta accadendo, dai movimenti rapidi del suo corpo. Sposta la mano, il muro alle mie spalle graffia la pelle nuda mentre me lo infila dentro iniziando a spingere, ogni gesto è dettato da un'urgenza nuova, dalla sua fame che si avventa spietatamente sulla mia.
«Per chi, mh?».
Non riesco a dire niente. Con una mano mi tiene sollevata una gamba, sposto in avanti il bacino e provo ad aumentare il contatto ma mi blocca i fianchi e si ferma di colpo. Provo a voltarmi verso la bocca, ho bisogno di baciarlo, di sentirlo mio, ma mi scansa.
«Dimmi per chi ti sei bagnata così».
Appoggia la fronte alla mia, il suo fiato mi sfiora le labbra. Siamo troppo vicini per poterci vedere, i suoi occhi sono sfuocati, il suo profilo si perde dentro le ombre. La mia voce è un sussurro lento, senza forze.
«Per chi?».
Trattengo il fiato e a fatica libero il lamento.
«Per te. Maledizione! Solo per te».
La sua lingua finalmente affonda dentro la mia bocca. Tiro su entrambe le gambe, mi ancoro ai suoi fianchi, siamo entrambi vestiti ma il grado di intimità tra noi non è mai stato così alto. Il mio clitoride sfrega sul suo corpo, si gonfia, esplode dentro il piacere che solo lui riesce a darmi. Geme mentre viene, schiaccia le sue labbra dentro le mie, ringhia. Restiamo fermi a respirarci addosso mentre fuori il mondo sembra crollare sotto i colpi di una rivoluzione.
«Chi era quel ragazzo che ti toccava?».
Non si muove. Cerco i suoi occhi, gli tengo ferma la testa con i palmi di entrambi le mani.
«È gay».
Accenna un sorriso che gli si smorza subito sulla bocca.
«Non è un motivo sufficiente per farsi toccare a quel modo».
Mi rimette a terra. Ci sistemiamo in fretta, come se non fosse successo nulla, le mani sulla porta insistono, le urla esplodono, fa scattare la serratura. Sono dietro di lui, non alzo la testa, ci piovono addosso insulti, risate, maledizioni. L'aria fuori è fresca e si abbatte sul corpo sudato, sull'eccitazione che ancora deve smorzarsi del tutto. Si volta, molla la presa, non mi guarda, fissa la strada, il buio.
«Questa sera non cambia le cose. Tutto resta come avevamo stabilito».
Il mio viso si scompone dentro a una smorfia di stupore.
«Cosa vuoi dire?».
«Voglio dire che mercoledì me ne vado».
«Ma...».
«Mila, cosa ti aspettavi? Non ti conosco, non mi fido di te e tu dovresti fare la stessa cosa con me. Io voglio determinate cose che tu molto probabilmente non sei neanche disposta a concedere».
L'ira mi attraversa il corpo con una scossa dolorosa.
«Tu vuoi solo sentirti dire che sei l'unico! Ma l'unico per cosa? Per cinque giorni? O per due?».
Mi guarda, la sua espressione cambia. Allunga una mano e raccoglie la mia guancia stringendola come un frutto che non vuole cadere.
«Per stanotte».
Mi allontano di scatto, il mio corpo si è irrigidito al punto da poterlo rifiutare.
«No».
Uno spazio di vuoto ci divide.
«Cosa vuoi allora? Spiegati».
«Voglio essere amata, cazzo! È così difficile da capire?».
Continua a guardarmi, ma non si muove. Resta fermo dentro il suo confine. Le mani tremano strette al bordo della gonna, mi ci aggrappo come se potessi rassicurarmi da sola. Vorrei colpirlo, costringerlo a parlare, obbligarlo a dire qualsiasi cosa, ma non ho il coraggio di muovere un solo muscolo nella sua direzione. Fa un passo indietro e i miei occhi trattengono a stento le lacrime. So cosa sta facendo e non ho intenzione di fermarlo. Alza gli occhi e mi guarda.
«Non è difficile da capire e troverai qualcuno in grado di farlo. Te lo assicuro».
Si volta e se ne va. Lo guardo mentre si insinua come un'ombra tra i palazzi. Lo guardo ancora, anche quando smetto di vederlo, perché spero che torni, che si rimangi ogni metro percorso senza di me, ma non accade. Il cielo non mostra alcuna stella stanotte, il vuoto se le è divorate tutte.

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