Diciotto

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DOMINIQUE

Apre gli occhi, mi guarda. Muove la mano, le lenzuola la trattengono un istante prima di raggiungermi. Mi abbasso sul suo palmo e lo bacio. La luce entra dalle imposte. Sono arrivato che dormiva, non l'ho svegliata, mi sono seduto al suo fianco e sono rimasto fermo per ore, a guardarla, ad aspettare. A un certo punto ho aperto gli occhi e la luce mi indicava l'ora, ma il mio corpo non restituiva il tempo trascorso, la percezione della sua vicinanza annullava ogni risposta.
«Sei qui da molto?».
«Più o meno».
Solleva il busto, con una mano si attraversa la frangia, alza gli occhi e mi guarda.
«Avrei voluto chiamarti ma avevo bisogno di stare sola».
«Lo so».
Mi guarda di nuovo.
«Sai tutto?».
«Sì».
Si solleva, si mette seduta al mio fianco, la canotta mette in evidenza il seno nudo, la linea del collo si libera dei capelli. Mi impongo di non toccarla, di restare fermo, di spostare gli occhi.
«Mila, mi spiace per quello che hai dovuto subire. Sono responsabile di tutto».
Non resisto, sollevo un dito e le sfioro la fronte, le sposto la frangia.
«Come stai?».
Fa una pausa in cui si passa le mani sugli occhi, in cui cerca le parole, le emozioni.
«Non lo so, non so cosa sento. Niente sarà più uguale a prima».
Si mette in ginocchio, ruota il bacino e mi sale sopra. Le accarezzo le cosce, sento la sua pelle tesa sotto le mie dita, provo a trattenermi dalla voglia di baciarla, mi anticipa e sfiora la mia bocca dolcemente. Le afferro la nuca e me la spingo contro, voglio sentire il suo sapore. Le nostre lingue giocano, tutta la nostra urgenza mi piomba addosso, avverto la sua paura, sento nitida la preghiera di ogni gesto. Di riflesso mi sposto, l'allontano appena. Prova a superare le mie braccia e torna a farsi avanti, non riesco a respingerla e me la lascio cadere addosso. Il suo profilo è a pochi centimetri dal mio, le infilo una mano sotto la canotta, fatico a non spogliarla subito. È la sua lacrima che ferma ogni cosa. La scia luminosa che si apre sul viso e mi rimanda indietro. Ogni intenzione torna a muoversi più rapidamente, non posso allungare questa agonia. Alza gli occhi, si pulisce il viso con un gesto rapido del polso e mi guarda.
«Te ne stai andando, vero?».
È l'immagine del suo dolore, il dolore che nessuno può amministrare, che risponde al posto mio.
«Sì».
«Perché?».
Non riesco a darle una risposta sensata, non ora che tutto sembra prendere le dimensioni terrene. Adesso siamo realmente noi due, inseriti dentro una quotidianità che non avevamo preso in considerazione e non c'è posto per entrambi. Dove uno si muove l'altro viene ferito. La sua vita è crollata davanti ai miei occhi e io non ho fatto niente per impedirlo. Sono ancora in tempo per andarmene, come avevamo concordato, come da sempre sapevo che sarebbe accaduto e lo sapeva anche lei. Scivola oltre il mio corpo, non piange più. Scende dal letto e raggiunge la porta, la apre e mi guarda. Non supera la soglia, non muove un passo nella mia direzione, mi guarda e aspetta. L'attesa apre un'altra volta la sua lunga strada. Il materasso muove un lamento quando mi alzo. La raggiungo e resto fermo davanti a lei per un istante che non so valutare in termini di tempo. I suoi occhi sono tempesta, la stessa che sento dentro e che mi spinge fuori. Non so gestirla questa dannazione, non so cosa farmene e non voglio doverla affrontare.
«Non dimenticherò nulla».
Alza gli occhi, spinge in gola qualcosa, annuisce con la testa. Alzo una mano ma poi la spingo indietro.
Se la tocco resto, se la tocco non troverò mai il coraggio di partire, se la tocco il suo cuore andrà in frantumi.
Tossisce, si passa una mano sulla bocca come a volersi pulire da qualcosa.
«I ricordi fanno male, Dominique. Lasciali andare».
Guardo un'ultima volta il profilo del naso, la pelle chiara che si apre nella penombra come uno spiraglio di luce, i capelli neri che scendono su tutto, sul corpo, sulla vita, su quello che non possiamo cambiare, su noi due. Sposto gli occhi sul corridoio vuoto, mi guardo i piedi come quando ero bambino e spingevo fuori le mie colpe convincendomi ad attraversare zone che mi mettevano paura. Il bosco, uno scantinato, un'area dentro cui si dimenticavano i confini.

DOMINIQUE

Riccardo mi aspetta al check-in. Elia gli stringe la mano, appena mi vede corre nella mia direzione. Lascio andare il bagaglio e me lo carico in braccio.
«Vai via?».
Gli passo una mano tra i capelli, scivolo dentro i suoi ricci come se dovessi contarli uno ad uno.
«Sì».
«E dove vai?».
Riccardo viene in mio soccorso, lo prende e lo rimette a terra. Elia incrocia lo sguardo di un cane minuscolo e si allontana per guardarlo meglio da vicino, ha già dimenticato le sue domande.
«Sei sicuro?».
«Sì».
La mano scende sulla mia spalla con tutto il suo peso di raccomandazioni.
«Però parli a monosillabi».
Sorride cercando di alleggerire il momento.
«Sono stanco. Non ho dormito».
«L'hai vista?».
«Sì».
«Pretendi troppo dai sentimenti, dai suoi e persino dai tuoi».
Prendo il bagaglio, mi spingo in avanti e lo imbarco. Mi volto ed è ancora lì. Mi avvicino e gli passo un mazzo di chiavi. Le afferra e poi mi guarda.
«La macchina ok, ma il resto?».
«Il Cedar».
Alza gli occhi e mi guarda.
«E cosa dovrei farmene?».
«Gestirlo».
«Tu sei pazzo».
«Al locale trovi tutti i documenti da firmare. Io non tornerò Riccardo, non posso. Devi occupartene tu».
Si spinge in avanti con entrambe le braccia e mi strappa dal mio spazio.
«Sei una testa di cazzo. Non ti capirò mai abbastanza».
Gli batto i palmi sulla schiena, lui fa lo stesso con me e poi ci separiamo. Elia si avvicina al padre, ha lo sguardo triste.
«Il cane è andato via».
Mi piego e lo guardo più da vicino.
«Mi saluti?».
Sposta il peso dentro le mie braccia, resta fermo per un istante brevissimo e poi si stacca e torna a guardarsi attorno. Sorrido a Riccardo un'ultima volta, supero il controllo di sicurezza e non mi volto più.
Ogni spazio in cui mi spingo sembra popolato da rovi immaginari. Le mie gambe si muovono a fatica, ma non cerco una giustificazione per rimanere. La certezza dei miei gesti è popolata da motivazioni che non so valutare, che non riesco a considerare in nessuna maniera. Non ora. Non è il momento per farsi domande e per darsi risposte. È sempre stato così anche in passato. Superato il disturbo dell'abbandono, superata la partenza, poi tutto scivolava via e io rientravo nei miei vecchi vestiti e ritrovavo l'equilibrio. Devo solo lasciarmi andare. Devo solo dimenticare.

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