Sette

20 3 0
                                    

DOMINIQUE

Le accarezzo le efelidi sulla spalla, la lanugine sulle braccia, la mano si sposta e mi scivola addosso restituendo ogni carezza.
«Buongiorno».
La voce è sgranata dal sonno, alza gli occhi e sorride.
«Buongiorno».
Non ha ancora sollevato la gamba e il mio corpo non riesce a pensare di poterla allontanare. Forse anche il suo nutre il medesimo bisogno, forse è per questo che continuiamo a sostare in questa zona neutra dove nessuno dei due osa muovere un passo. Un telefono suona. Mi volto e la guardo mentre solleva la testa. Si gira e mi fissa con una strana espressione addosso.
«Mila, avevamo un patto: nessuna telefonata».
Sposta il braccio sciogliendo la presa.
«Ieri sera non mi hai dato il tempo di spegnerlo».
Il suono è insistente ma non corre a rispondere. Mi puntello con i gomiti e mi sollevo appena.
«Dammelo».
«Stai scherzando? Non sono una bambina che va tenuta sotto controllo».
Il suono si interrompe e mi metto seduto davanti a lei.
«Invece lo sei eccome».
Si gira dall'altra parte, mi mostra la schiena nuda. Le appoggio le mani sulle spalle e la tiro indietro, cerca di fare resistenza, ride. La mia bocca è sui suoi occhi e col naso le sfioro le labbra. Siamo dentro un gioco di specchi. Mi inginocchio e la bacio mordendole il mento e spingendomi in avanti lungo il collo. Lei allora sposta in fretta le braccia, le allunga tra le mie gambe e, facendo leva sulle mie cosce mi costringe a sollevarmi mentre scivola sotto. Giro con la lingua attorno al suo ombelico e poi sfioro con piccoli movimenti circolari la pelle dell'inguine. I suoi versi di piacere sono smorzati dalla mia erezione che le riempie la bocca. Riesce a mozzarmi il respiro in gola, a scivolarmi dentro come un colpo d'arma da fuoco. Si abbandona tra le lenzuola, la pancia è scossa dal tremore dell'orgasmo.
«Credi che riusciremo mai a uscire da questa stanza?», chiede con un filo di voce.
«Non ne vedo la necessità».
Scende dal letto senza voltarsi.
«Vado in bagno. Fatti trovare vestito. Ho bisogno di prendere aria. Se resto qui mi uccidi».
Sposto le lenzuola, percorro lentamente la stanza, spalanco la finestra. Il cielo è completamente svuotato, l'azzurro intenso si riflette nel mare.
Sento la serratura che si muove alle mie spalle, mi volto ed è vestita, indossa gli occhiali da sole e sorride raggiante.
«Segui mai le indicazioni di qualcuno?».
Si avvicina di qualche passo, abbassa gli occhiali sulla punta del naso e mi scruta.
Le passo accanto, prendo una maglietta dalla sacca. Il getto d'acqua che mi riempie gli occhi rigenera appena il torpore. La raggiungo in giardino con i pantaloni in mano. È seduta a terra, fissa il mare. Finisco di vestirmi e mi siedo al suo fianco.
«Tutto bene?».
Si volta, si è tolta gli occhiali, c'è tutto un azzurro che mi circonda e mozza il respiro. «Grazie per tutto questo».
Le passo una mano sul collo e raccolgo i capelli dentro il palmo.
«Tutto questo è per me».
«Il mio corpo si è come ribaltato».
Torna a fissare il mare. Le carezzo la schiena e poi mi alzo in piedi. Prende la mia mano e si infila nuovamente gli occhiali. Mi vedo riflesso dentro le lenti. Ho i capelli scomposti, la barba un po' più lunga e l'aria di chi ha perso ogni consapevolezza.
«Andiamo?».
La sua voce è un bisbiglio sulle mie labbra. La guido oltre le siepi, potrei portarla ovunque, senza mai conoscere per intero la strada.

MILA

Le barche sono ormeggiate, lo guardo con la coda dell'occhio, ma non ricambia, resta sospeso a pochi metri da me, sembra issarsi dentro pensieri irraggiungibili. Per qualche ora voglio vivere alla mia maniera, passeggiare, prendere il sole, avvicinarmi al mare quel tanto che basta per sentirmi più vicina alla Mila di cui non parlo mai. Saliamo verso il borgo, le stradine si fanno subito strette. La gente scatta qualche foto, io mi limito a registrare ogni azione, perché non c'è una sola immagine che potrebbe riassumere ciò che provo. Entriamo in un bar e ordino due caffè.
«Ci sediamo fuori?», chiede maneggiando le sigarette.
«Oggi facciamo come dico io, e io il caffè lo bevo in piedi e tu magari fumi un po' meno».
«Hai una visione della vita parecchio faticosa».
Il suo sorriso non maschera affatto il tono, mi sta prendendo in giro. Alzo un sopracciglio, non mi guarda e manda giù il caffè.
«Le tue abitudini fino ad ora mi sono sembrate tutte terribilmente gradevoli. Se però posso permettermi di dire la mia, ci terrei a ricordare che questo spazio di autogestione ha una durata massima e tra qualche ora tornerò a decidere io più o meno tutto».
Gli appoggio una mano sul torace, la faccio scivolare verso il basso e mi metto a giocare con il bordo della maglietta.
«Quindi non posso prendere nessuna decisione?».
Il muscolo della mascella gli si irrigidisce visibilmente, mi scruta dall'alto poi si avvicina e mi sfiora l'orecchio con il naso, un brivido mi percorre il collo.
«Dipende da quanto sono azzardate le tue decisioni».
Non mi lascio il tempo di controbattere e lo riporto in strada, voglio tempo per ragionare, aria per respirare. Camminiamo lentamente lungo le cinta murarie. I vicoli sono spazi d'ombra sempre più remoti, mi volto e intravedo il mare in lontananza. Nessuno dei due sembra trovare argomenti validi, il silenzio incombe su di noi. Provo a scivolare via dalla mano ma non molla la presa, allora rallento di poco e lo fisso da dietro.
«Potrei scalare una montagna con i tuoi occhi puntati addosso».
«Sono così minacciosa?».
Mi strattona la mano e se la fa passare dietro la schiena.
«Molto di più».
C'è quest'energia sotterranea che ci costringe a una vicinanza incomprensibile e che allo stesso tempo azzera ogni tipo di comunicazione, mancano le parole e non riesco a rendermi conto se tutto questo è un bene o un male. Riprendiamo a salire. Raggiungiamo la piazza e finalmente il mare si mostra in tutta la sua ampiezza. Mi affaccio e resto incantata a guardarlo, l'aria mi muove i capelli. Tutti questi spazi di vuoto verbale mi rendono nervosa, vorrei sapere cosa pensa, cosa prova, ma senza la sua voce a darmi un riferimento non riesco a misurare le distanze che ci dividono.
«A cosa stai pensando?» chiede lui per primo.
«Stavo cercando di capire a cosa stessi pensando tu».
«E perché non me lo chiedi?».
Sorrido persa dentro questo continuo ritorno di domande.
«Perché non mi sembra una domanda intelligente».
«Quindi ti ho fatto una domanda stupida?».
Rido di nuovo. Si alza e mi prende le mani trascinandomi verso il muro che delimita la piazza. Mi solleva da terra e nel farlo infila le mani sotto la camicia, mi ritrovo seduta in bilico sul profilo di pietra. Ho il mare alle spalle, ma non lo guarda.
«A cosa stai pensando?» chiedo finalmente.
Mi sfila gli occhiali e li appoggia accanto alla gamba, ripete lo stesso gesto con i suoi. Sul suo viso trema una smorfia.
«Penso che vorrei scoparti qui, ora, davanti a tutti. E penso anche che questa cosa che non riesco a pensare ad altro sta iniziando a risultarmi quantomeno scomoda».
Gli appoggio la bocca all'orecchio mentre con le braccia me lo tiro contro.
«Mr Gibrain credo fermamente che tu sia affetto da qualche grave patologia».
Sento la sua risata sulla spalla.
«Ne sono convinto anch'io».
Scivolo giù dal muretto e nel farlo avverto col ginocchio l'erezione che spinge dentro i pantaloni.
«Conosco la cura, però».
Si stacca dal mio corpo, afferra gli occhiali e mi tira in avanti facendomi perdere l'equilibrio.
«Cammina e non aggiungere altro, mi stai facendo impazzire».
Cerco di stare al passo. Scendiamo verso il mare, dopo pochi metri rallenta.
«Dove vuoi andare?».
È chiaro a entrambi che la risposta perfetta sarebbe quella di tornare in camera e non uscire più, ma io oggi ho delle pretese che non intendo dimenticare. Mi passo un dito sulle labbra e scoppio a ridere. La sua espressione si irrigidisce di nuovo.
«Vorrei pranzare».
Si guarda attorno e poi mi strattona di nuovo dirigendosi verso un piccolo locale alla nostra destra. È un minuscolo ristorante dalle ampie vetrate. Una signora vestita di giallo ci viene incontro sorridendo.
«Un tavolo per due?».
Annuisco, mentre Dominique esce sulla terrazza. La donna lo segue e ci indica un tavolo. Lo raggiungo e ci sediamo l'uno di fronte all'altra. Resto in attesa per qualche minuto e poi mi alzo, sposto la sedia e la sistemo accanto alla sua.
«Ce l'avessi io un marito come il suo, signorina!».
La donna ci osserva dalla porta, afferra una brocca d'acqua e un cesto di pane. Dominique si porta la mia mano alla bocca.
«Anche con me la sorte è stata piuttosto benevola».
«Eh, lo vedo! Io sono brutta e mio marito peggio! Le fortune capitano sempre agli altri. Vi lascio i menù e poi torno a prendere le ordinazioni».
Si gira e se ne va.
Le sue dita giocano con i miei capelli. Evito le onde che provano a riportarmi indietro, niente mi impedirà di proseguire in questa direzione. Afferro il menù e scelgo in fretta qualcosa. Cerco i suoi occhi e mi accorgo che non ha neppure guardato la lista.
«Cosa vi porto?».
La signora è ricomparsa al limitare del tavolo, ci fissa con aria incuriosita. Lui si gira, mi guarda e senza distogliere lo sguardo risponde.
«Ordina mia moglie, oggi decide lei. Questa è la sua ora di libertà».

DOMINIQUE

Con un'unghia mi graffia il dorso della mano, le afferro quel dito, la sento ridere. Indossa un paio di shorts strappati e una camicia bianca da cui si intravede il costume. Slaccia l'ultimo bottone, libera la pelle con un sospiro, la collana mi restituisce un lampo di luce. Incontriamo qualche ombra giù al porto, fantasmi forse, neppure li vedo, i loro movimenti si perdono dentro un filo di vento. I piedi rimbombano sul pontile, il mare che passa sotto le assi di legno schiuma appena. Mila si guarda attorno con occhi strani, studia e cerca in continuazione oggetti, dettagli, fissa l'orizzonte, non parla. Provo a portarla nella mia direzione, ma non mi segue. Indica una riga di sabbia, si spinge in avanti come una bambina, le afferro il polso, blocco ogni slancio.
«Andiamo in spiaggia. Laggiù, guarda...».
«No».
Aumento il passo, non voglio concederle alcuna possibilità di replica. Si aggrappa alla mano, prova a opporre resistenza e resta muta.
«L'autonomia è scaduta» affermo risoluto.
Borbotta un lamento ma non mi volto, neppure la guardo e riprendo a camminare. Imbocchiamo la strada che porta al residence, il giardino è una zona d'ombra e fiori. L'aria è più fresca, eppure non mi basta ancora, i capelli scivolano sugli occhi, li sposto col dorso della mano, forse questa mia insoddisfazione la raggiunge, forse si mostra a mia insaputa come un marchio di nervosismo piuttosto illogico, allora si ferma, mi strattona il braccio, mi guarda.
«Non ho nessuna intenzione di eseguire ogni tuo ordine. Ficcatelo bene in testa».
Punta i piedi, affonda le mani sui fianchi. Mi volto, assume il solito atteggiamento frustrante, vuole imporsi e se non lo facesse sarebbe tutto più facile, non dovremmo discutere, non dovrei forzare gli eventi.
«Invece farai esattamente quello che voglio io».
Spalanca le braccia, alza gli occhi al cielo, poi si volta e si guarda indietro come se stesse aspettando qualcuno, prova a parlare ma non lo fa. Muove un passo nella mia direzione e poi si ferma. Il frastuono passa dal mio corpo accaldato al suo e si tramuta in uno sguardo di fastidio che non emette alcun suono ma sembra urlare. Si volta, scavalca un muretto che porta al mare e si allontana a passo svelto. Rallento il gesto della mano, fermo le gambe, la guardo. Non so che farmene delle incomprensioni, non ci provo neppure a sforzarmi di comunicare. Seguo quel profilo che attraversa il giardino, che si infila dentro la prima lama di sole e non mi muovo. Si ferma, forse cerca un gesto, una parola. Fisso il vuoto che accoglie quell'unico filamento di luce e realizzo che non posso perdermi continuamente dietro al suo tempo, non riesco a sgranare questo rosario di attenzioni che il corpo reclama, ma non ho neppure intenzione di rincorrere le inquietudini di un'altra persona.
Scalcio via le scarpe, ogni passo che mi allontana da lei calpesta un pensiero di cui posso fare a meno. Questo continuo procedere per tentativi nei confronti di una sola donna mi rende insofferente. La cerco di nuovo con gli occhi, è riemersa dalle onde ma è comunque lontana, le gambe che anticipano l'orizzonte sono una linea di luce abbagliante, segue il sole, non mi guarda. Torno indietro ed entro in stanza. Ho bisogno di staccarmi per qualche minuto, questa nostra eterna condivisione mi sta facendo perdere il senso del tempo. Sento il suono del telefono che mi rimanda indietro, lo sfilo dalla tasca, sul display compare il nome di mia madre, riesce sempre a presentarsi nei momenti meno opportuni ma non posso negarle una risposta.
«Dominique?».
«Ciao».
«Ho appena ricevuto una telefonata. Non credo sia importante, ma ho preferito dirtelo subito».
«Chi era?».
«Un uomo».
«Chi?».
«Non me l'ha detto. Voleva informazioni sulla società, ma non gli ho risposto, anche perché non ne so proprio niente. Gli ho detto che doveva parlare con te e allora ha riattaccato».
Soffio l'aria oltre le labbra, balbetta qualcosa e poi si ferma.
«Se richiama contattami subito».
«Stai bene?».
«Sì».
«Forse dovremmo parlare... l'altro giorno non ci siamo proprio capiti».
«Non ora, ti prego».
«Ma Dom...».
«Lascia stare. Ti richiamo io».
Lancio il telefono sul letto ed esco un'altra volta in giardino, devo disfarmi di tutti questi pensieri. L'afa mi piove addosso, la pelle si fa liquida, gli occhi un'altra volta misurano le distanze con disperazione. Su un lato del muro c'è un'apertura oltre la quale si vede la spiaggia. Mila è seduta sotto il sole, fissa il mare, di lei vedo solo la schiena nuda, le mani affossate dentro la sabbia. È testarda e ostinata. Torno dentro, perché sento suonare un telefono e questa volta non è il mio. Le afferro la borsa, sfioro la biancheria, poco sotto intravedo il suo Iphone, neppure realizzo che la sto privando di ogni contatto col mondo quando lo prendo e lo sposto dentro la mia sacca. Nessuna distrazione. Il telefono smette di squillare e io riprendo a respirare.

OUTSIDEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora