Crepe

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MILA

È dentro di me, l'acqua ci scorre addosso distratta. Non riesco a vederlo, ho i capelli sparsi sul viso e l'eccitazione mi annebbia ogni percezione visiva. Scivolo con la schiena sulle piastrelle bagnate, mi solleva continuando ad ansimare.
«Dio, Mila».
Alzo il mento e il getto d'acqua mi libera gli occhi spingendo indietro i capelli. Boccheggio. Cerco la sua bocca, aspiro il suo fiato.
«Vieni per me. Solo per me».
Accolgo l'orgasmo come una benedizione e dimentico Sara, dimentico tutto quello che ho attorno, tutto il mondo che mi sta aspettando oltre la soglia di una porta che non vorrei attraversare. Mi spinge un'altra volta in alto, scende con le labbra sui capezzoli doloranti, morde, una sensazione di strazio e dannazione mi attraversa il corpo. Urlo di nuovo mentre con un verso greve viene anche lui. I movimenti del torace sono ritmati dal battito del suo cuore che avverto parallelo al mio. Faccio scivolare in basso le gambe e provo a staccarmi ma non ci riesco. Forse è la sua presa, forse è la mia volontà.
«Devo andare, Dominique».
Un verso di dissenso si muove tra i denti. Alza la testa e mi guarda. Le gocce gli scorrono sulla faccia, cadono nel vuoto. Mi faccio spazio ed esco, prendo un asciugamano e glielo passo mentre mi infilo l'accappatoio.
Il suono del cellulare rompe il silenzio. Esce dal bagno e lo sento parlare. Accendo il phon, devo fare in fretta, sono un'altra volta in ritardo. Ho perso il senso delle proporzioni, del tempo, delle regole. L'anarchia si muove sul mio corpo e devasta tutto quello che ho attorno. Apro la porta e lo trovo vestito. Digita nervosamente sull'Iphone, alza gli occhi e mi guarda.
«Non posso accompagnarti in ufficio. Scusami. Devo andare».
«Tutto bene?»
Sorride, ma non risponde. Si avvicina alla porta e lo seguo mentre entra in cucina. Sara sembra non essersi mossa dalla sera prima, ha gli auricolari appuntati alle orecchie e muove la testa a ritmo di musica, appena ci vede se li sfila tirando il cavo.
«Avete finito?».
Fingo di non averla sentita mentre lo accompagno alla porta e lo bacio un'altra volta. Non ci parliamo, bastano gli occhi. Se ne va, la porta si chiude e resto ferma a fissare il pavimento freddo sotto i piedi.
«Lo sai vero cosa ti sta succedendo?».
La voce di Sara mi arriva da dietro, è seria, composta. Mi muovo rapida verso la cucina, apro un pensile e afferro un sacchetto di biscotti, mi segue e ci infila dentro la mano.
«Lo so».
«E come pensi da fare?».
«Non ne ho la più pallida idea».
«Mila, ne avete parlato?».
«No».
«Ma tu devi dirglielo! Quanti giorni mancano?».
«Sette».
«E tu lo sai quanto possono essere brevi sette giorni?».
Non ce la faccio a sedermi, a farmi interrogare dalla sua voce, dal mio cuore che continua a capottarsi.
«Alle volte lo guardo, ascolto quello che dice e penso, mi convinco, che non partirà mai, che resterà. Altre volte invece lo sento, sento che non sarà così».
Ci guardiamo un attimo, senza sapere cosa fare.
«Gli hai detto della festa?».
«Sì».
«E cosa ti ha risposto?».
«Che mi accompagnerà».
Si fa avanti, cerca i miei occhi e sorride.
«Bene».
Sorrido anch'io ma è un gesto forzato che copre ben altre emozioni.
«Mila, non ti dirò altro, ma devi parlarci».
Le accarezzo la guancia e torno in camera. Quello che provo, ogni singola scossa che il mio corpo genera ha origini ben più profonde di quelle che voglio prendere in considerazione. Indosso un vestito blu, lungo fino ai piedi. Apro la finestra, avverto il calore che opprime la città, prendo la borsa ed esco. Sara è in camera, non voglio doverla rassicurare ancora, perché sarebbe come rassicurare me stessa e non posso continuare a mentirmi, a fingere di non vedere. Apro in fretta la porta e scendo le scale. Seguo l'ombra dei palazzi, i clacson riempiono l'aria rimbalzando sui muri fin dentro le case. Vorrei sedermi in biblioteca, sfogliare un libro che non ho intenzione di leggere, manovrare i pensieri verso qualche direzione impossibile. Vorrei sapere come affrontare tutto questo. Vorrei non dovermi guardare indietro.
Stanotte mi sono svegliata ed era lì, al mio fianco, riverso dentro il cuscino, le labbra un po' schiuse, l'aria che entrava e usciva come un'altalena di particelle invisibili. Gli ho attraversato la guancia con un dito e non si è svegliato. Avrei voluto bloccare il tempo e diagnosticare così la mia totale devozione al suo corpo, ma soprattutto, la mia completa dipendenza da tutto ciò che lo riguarda. Eppure non posso, non ci riesco. Spero che lui rimanga, che anticipi ogni mia richiesta dichiarandosi disposto a restare, ad annullare tutto, ma non posso vivere alimentandomi di ipotesi.
Arrivo in ufficio, le porte dell'ascensore si aprono e il freddo dell'aria condizionata mi cola addosso con una nota di fastidio. Carlotta non c'è, il front office è vuoto, imbocco il corridoio misurando i passi, ho solo voglia di sedermi, lavorare e cancellare ogni pensiero.
«Vieni nel mio ufficio».
La voce mi raggiunge alle spalle, a tradimento, come uno sparo. Sposto lo sguardo indietro e intravedo la scrivania di Marco, la porta è aperta, mi affaccio e lo trovo seduto, sposta alcuni documenti nel cassetto e mi guarda.
«Entra e chiudi la porta».
«Non credo sia necessario».
«Ti ho detto di entrare».
Non voglio che gli altri ci sentano quindi lo assecondo, supero la soglia ed entro senza fiatare. Mi volto ed è ancora seduto, le mani sulla scrivania, le dita intrecciate.
«Cercherò di essere il più comprensivo possibile. Sono giorni che fai quello che ti pare. Arrivi tardi, vai via prima, vorrei ricordarti che non funziona così. Devi essere a disposizione del lavoro che hai deciso di fare, una pratica va studiata, seguita, ragionata. Non ti stai comportando in maniera adeguata al tuo ruolo. Bollani ti ha affidato dei compiti e tu...».
«Il mio lavoro è sempre puntuale, non ho sospesi con nessuno, quindi smettila di farmi la predica».
Apre il cassetto e tira fuori un fascicolo. Sfila alcuni fogli dalla cartella e me li mostra.
«Vedi Mila, qui dentro dovevano esserci documenti che ti avevo chiesto e che tu non mi hai ancora fornito, questa non la definirei puntualità. Te ne stai fregando, è evidente».
La pratica è quella di Dominique, riconosco la mia scrittura. Mi chiedo quanto possa durare ancora questo strazio.
«Cosa vuoi? Dimmelo, perché non ho nessuna intenzione di mettere in discussione il mio lavoro per colpa tua. Quindi parla, sii chiaro e, una volta per tutte, dimmi cosa diavolo vuoi da me».
Si alza dalla sedia e fa il giro della scrivania. Apre le mani, fa un gesto piccolo, ma è come se comprendesse il cosmo.
«Ti rivoglio. È un concetto piuttosto semplice e mi stupisce che sia proprio tu a farmi questa domanda».
Serro i pugni, le unghie scavano dentro i palmi umidi.
«Lo sai che non è possibile».
Allunga un braccio e con un dito mi percorre la curva del gomito, mi scosto appena ma mi segue, non cede il contatto.
«Non ho mai accettato un rifiuto, perché non ho mai ricevuto un rifiuto. Anche questo è un concetto molto semplice, Mila. Quindi smettila di aggirare il buon senso e torna a renderti disponibile. Lo sai che non puoi fare a meno di me».
Faccio un passo verso la porta, ma continuo a fissarlo inorridita.
«Invece sto benissimo senza di te. Ficcatelo in testa, perché non ho nessuna intenzione di tornare indietro».
Si spinge in avanti e mi afferra una mano, io l'abbandono, inerte, fredda. Faccio finta che quella mano non sia mia.
«No, Mila, sei tu che ti devi ficcare in testa un paio di cose. Ricordati che Bollani non asseconda certi comportamenti e tu rappresenti in tutto e per tutto quello che professionalmente non approva. Vuoi che vada a raccontargli dei tuoi giochini con il nostro preziosissimo cliente? Vuoi che ti cacci dallo studio a calci in culo? Ragiona attentamente sulla questione, bambolina, perché qui dentro sei la prima a saltare».
Con uno sforzo sovraumano ordino al mio corpo di riprendersi, di spazzare via ogni paura, di radere al suolo le ultime insicurezze. Alzo un dito come fosse un'arma affilata con cui colpirlo e glielo punto al petto.
«Tu non puoi permetterti di dire certe cose!».
«E invece sì! Ti sei fatta scopare da un tuo superiore e poi, non contenta, perfino da un cliente dello studio! Sei un avvocato o una puttana? Chiediamo a Bollani un parere in merito? Tu che dici?».
«Sei tu quello che si è scopato una praticante! Se mi atterri vieni giù con me».
Ride. Non perde la calma e torna sedersi.
«E a chi crederà Bollani? Ci hai pensato? A me, o a te?».
La nausea mi sale in gola, afferro la maniglia ed esco. La porta sbatte violentemente alle mie spalle, attraverso il corridoio di corsa e dentro ogni passo traballo. Mi ha chiusa in gabbia e non ho nessuna via di fuga. La verità è così chiara che non posso non considerarla nella sua terribile interezza: non posso liberarmi da sola, non senza assecondarlo, non senza dargli esattamente ciò che vuole.

DOMINIQUE

La vetrina del locale è attraversata da una ragnatela che si allunga fino al pavimento. Stanotte qualcuno ha alzato la serranda forzandola dal basso e ha fracassato l'intera vetrata del Cedar. Mi siedo sui tavolini all'esterno, la sigaretta manda in aria spirali. Fisso le crepe, sembrano tracce, le consulto con la stessa cura con cui mi affiderei a una mappa, ma non arrivo da nessuna parte, non trovo niente di comprensibile in ciò che vedo. Improvvisamente mi sento saturo, pieno di transiti dentro cui non riesco a stare. Sono al telefono da ore e so solo che gli operai arriveranno tra pochi minuti, che tra qualche ora tutto sarà nuovamente in ordine.
Con la coda dell'occhio vedo Riccardo che attraversa la strada, le mani già in aria, il busto in avanti.
«Cosa cazzo è successo?».
Si ferma a un metro dalla vetrina, rendiconta ogni ferita, poi si toglie gli occhiali da sole e mi guarda.
«Qualcuno ha deciso che dovevo rifare la facciata del locale».
«Ci sono danni anche dentro?».
«No, non sono neppure entrati».
Si siede, sfila una sigaretta dal pacchetto e la fuma con l'angolo delle labbra.
«Siamo in centro, qualcuno avrà visto qualcosa».
«Non lo so. Ho appena firmato un verbale. In qualche modo indagheranno, ma non so altro».
«E tu come stai?».
Spengo la sigaretta nel posacenere. Mi passo entrambe le mani sul viso. Cancello ogni espressione.
«Francamente la vetrina del locale adesso è l'ultimo dei mie pensieri».
Spegne la sigaretta e mi guarda.
«Parli della Giglio o di Mila?».
Fisso la strada, provo ad evitare il suo sguardo.
«Entrambe le cose».
«Tu non la vuoi lasciare e parlo di Mila, non della Giglio. Quindi smettila di raccontarti cazzate e prendi una decisione prima che sia troppo tardi».
«Senti, non ho proprio voglia di sentirti predicare».
Si alza, torna a mettersi gli occhiali, ma ho comunque i suoi occhi addosso.
«Sei libero di andartene, se è quello che vuoi, questo però non ti renderà diverso da tuo padre».
Il fastidio delle sue parole mi rimbalza sul corpo come una bastonata. Mi alzo e gli passo accanto, non lo guardo. Sono a pochi passi dalla vetrina, potrei sfondarla con un pugno, radere al suolo ogni cosa.
«Non sai neanche di cosa cazzo stai parlando. Tu non lo conoscevi».
«Dom».
«Vattene».
Mi sposto ed entro nel locale. Supero il bancone, afferro un bicchiere e lo butto dentro il lavandino, i vetri rimbalzano ovunque. Spingo indietro la schiena, sento il profilo appuntito di uno scaffale che mi sostiene, mi volto, fisso la vetrina prima e la strada poi. I tavolini sono vuoti, Riccardo è sparito. Anch'io non lo conoscevo.
Ci sono in ballo troppe cose. La società, mia madre, i soldi scomparsi e adesso il locale. Ha ragione lui, l'unico vero pensiero che mi tormenta è Mila e trovo che sia una cosa assurda. Dovrei pensare alla frode fiscale generata da mio padre, al danno aziendale, al rischio penale che incombe sulla testa di mia madre e invece riesco solo a rimuginare su questa dannata scadenza che ci siamo dati, che le ho imposto, con cui mi sono giustificato. Anthony entra dalla porta scortato da due uomini, è tutta la mattina che ci dividiamo compiti cercando di ottimizzare i tempi.
«Se vuoi andare, resto qui io a controllare i lavori».
Guardo l'orologio, ho un'ora di tempo prima dell'appuntamento con Bollani. Oggi il locale resterà chiuso. Ho bisogno di camminare. Imbocco la porta ed esco. Il caldo è opprimente ma una brezza si è alzata alleggerendo il peso dell'afa. I turisti si muovono in bermuda e t-shirt, sfidano il sole come combattenti spinti da un identico obiettivo. Un nugolo di anime compresse su cui cala il desiderio della scoperta. È per questo che mi piace viaggiare, modificare le attese, perché c'è questa sottile linea di benessere che ti permette di lottare per qualsiasi cosa. Mila l'ho scoperta qui, dentro questa città, in un momento di caos assoluto, senza nessuna aspettativa, senza nessun progetto. Ho perso il conto dei giorni da quando stiamo assieme, ho la percezione che sia già tanto, pur essendo pochissimo. So esattamente cosa voleva dire Riccardo. Non accetto consigli per inutilità, non credo in Dio per mancanza di fiducia, non cerco l'amore per indifferenza. Mi ostino a voler sembrare diverso da mio padre e dentro questa frustrazione mi impongo un modello che in realtà non mi rispecchia affatto. Mio padre non cambiava mai, ho sempre pensato che il cambiamento corrispondesse all'evoluzione e invece non è così. Io sto semplicemente scappando da me stesso e in questo, è vero, sono esattamente uguale a lui.
Mi volto e torno indietro. Lo studio è a pochi passi da qui. Ho tutto il tempo per parlarle. Solo dopo aver messo ordine tra noi due potrò prendere in mano il resto della mia vita.

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