Blue Velvet

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MILA

«Mamma?».
«Posso sapere dov'eri finita? Sono giorni che ti cerco».
«Non sono stata bene, scusami».
«Cosa ti è successo? Devo preoccuparmi?».
«No, no, stai tranquilla. Adesso sto bene, credimi. Dimmi piuttosto della festa».
«È tutto pronto. Sara è stata meravigliosa. Nonostante gli impegni con lo spettacolo teatrale è riuscita a darmi una mano. Se non ci fosse stata lei, non so veramente come avrei fatto».
Una nota di fastidio mi raggiunge. Non faccio niente per sottrarmi alle sue rimostranze, riesce sempre a farmi pesare tutto quello che le capita.
«Sara è magnifica, lo so».
«Hai preso un vestito adatto? Ci saranno parecchi colleghi di papà e un abito lungo è quello che ci vuole».
«Non temere, non ti farò fare brutta figura».
«E cosa mi dici del tuo accompagnatore?».
Lo sapevo che saremmo finite a parlare dell'unico argomento che mi provoca fastidio. L'ho chiamata apposta, dovevo chiarire subito la questione, l'ultima cosa che voglio è sorbirmi un rimprovero di persona.
«Non ci sarà nessun accompagnatore e ti prego, ti scongiuro, non insistere».
«Ma tu... Sara mi aveva detto...».
«Sara ti ha detto quello che le avevo detto io, ma alle volte le cose cambiano e non possiamo farci niente».
Fa una pausa lunghissima in cui, lo so, cerca di soppesare il disappunto, o forse semplicemente, non si capacita del mio ennesimo tentativo di guastare gli eventi.
«Potresti invitare Marco».
Chiudo gli occhi e mi siedo. Non voglio dare peso a quello che ha appena detto. Vorrei riattaccare, ma continuo a ripetermi che non è colpa sua. Cerco di respirare correttamente, come mi sono imposta di fare oggi e domani e tutti i giorni che seguiranno.
«Scusami ma adesso devo andare. Ci vediamo sabato, sarò al casale nel pomeriggio».
Un lungo silenzio ci divide.
«Va bene. Ciao Mila».
Torno verso la finestra dell'ufficio e guardo il cielo grigio che pesa come un coperchio sopra Firenze. Questa giornata di pioggia sottile mi tranquillizza nonostante l'incoerenza degli eventi. L'aria si è rinfrescata e il benessere che avverto nel respiro mi pare quasi una benedizione, passa dalla bocca alla testa alleggerendo ogni pensiero. Ieri sera ho cenato con Sara in una vecchia trattoria del centro, un posto rustico con poca luce. Tavoli di legno sbrecciato, tovaglie colorate, piatti spaiati. Ci andiamo spesso, perché è il nostro posto ideale, tanti turisti e pochi bambini. Rita ci accoglie con un abbraccio, il marito esce a fatica dalla cucina, arranca dentro i suoi duecento chili e ci bacia sulla fronte tenendoci le mani sul viso. L'umanità mi striscia addosso e non mi levo, resto lì, l'abbraccio tutta, mi ci perdo. Sara mi ha presa per mano, a un certo punto ho creduto non avrebbe più mollato la presa, voleva rassicurarmi, voleva tenermi lontana da tutto il male che riesco a farmi da sola. Abbiamo parlato per ore, come non succedeva da giorni. Ho ascoltato gli aneddoti di ogni spettacolo, i retroscena e tutto quello che non era riuscita a raccontarmi prima. Mi ha travolta con la sua vita buttando un po' in disparte la mia. Una volta a casa ci siamo guardate un film e poi ho dormito tutta la notte. Non ricordo se ho sognato qualcosa, so solo che stamattina mi sentivo meglio, la necessità di tornare indietro, di ricongiungermi a chi avevo lasciato non mi sembrava più così indispensabile e dolorosa.
Sono uscita presto, ho accarezzato la pioggia che scappava alla presa dell'ombrello, mi sono persa dentro il rumore della strada che scivolava lenta, ho contato gli schizzi che mi colpivano le gambe, che mi sporcavano l'orlo dei pantaloni.
Varcata la soglia dello studio il buio mi ha accolta, rassicurata, non c'era anima viva lì dentro, il silenzio ingabbiava ogni presenza. Mi sono tolta le scarpe al front office, ho lasciato cadere la borsa a terra e, in pochi passi, ho varcato la soglia dell'ufficio di Marco. La luce l'ho accesa lì, poco sopra la scrivania, muovendomi in fretta, con l'ansia che mi imbrigliava le mani. La pratica di Dominique era nella cassettiera, dove gliel'avevo vista mettere l'ultima volta. Ho trovato i documenti, ne ho soppesato il valore con uno sguardo vinto dalla paura e poi mi sono avventata, senza premure, sul plico dei verbali. Di tutti però mancava proprio quello che mi aveva mostrato Bollani, con molta probabilità era ancora nel suo ufficio.
La borsa e le scarpe bagnate sostavano a terra quando l'ascensore si è aperto sul piano. Il brusio delle voci mi ha scavalcata, alcuni impiegati dell'amministrazione hanno mosso sguardi impauriti, altri mi hanno fissata senza alcuna curiosità. L'interruttore scattava e tutti improvvisamente si salutavano sbrigativi. Marco era poco dietro. Sono rimasta ferma, a pochi passi da lui, la pozza d'acqua che mi sfiorava la punta dei piedi.
«Vedo che ti sei ripresa».
«Sì».
Il pavimento era gelido.
«Non credo ti convenga girare scalza per lo studio. La tua salute di questi tempi è sempre troppo cagionevole».
«Vado a cambiarmi in ufficio».
Il corridoio mi era parso infinito, i suoi occhi piantati in mezzo alle scapole e l'anima mia che, per l'ennesima volta, andava a rifugiarsi lontana.
Camminavo sotto la pioggia stamattina e, come dentro un giochino di pesca sfortunata, risollevavo dalle brame di una memoria delirante ogni ora passata insieme a Dominique. Sfrondando ogni istante di crudele felicità mi sono sentita improvvisamente preda di una furiosa intenzione: dovevo dimostrare a tutti la mia cocciuta diligenza. I documenti della società li avevo raccolti io, letti con attenzione, depositati dentro le mura dello studio dove ora si discuteva dell'esistenza o meno di un colpevole. Mai come ora posso dire di essere certa, potrei giurarlo, che quel verbale non era presente tra i documenti che Dominique ha consegnato a Bollani.
Fisso di nuovo la finestra, la pioggia bagna il vetro, scivola verso il basso, scompare. Vorrei poterla seguire, ma non posso. Adesso non mi resta che aspettare.

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