Senza tempo

18 3 0
                                    

MILA

Indosso il suo accappatoio, l'aria della sera mi passa tra i capelli come un sussurro. Il terrazzo è ampio, le luci guidano gli occhi, segnano le vie della città. Mi porge un bicchiere d'acqua, alzo gli occhi ed è lì, l'asciugamano bianco avvolto attorno alla vita, i capelli bagnati.
«Oggi sei sparita».
«Avevo bisogno di tempo».
«Non abbiamo tempo».
«Lo so».
Alza una mano e con un dito cancella una goccia dalla tempia.
«Nessuno ti obbliga, Mila».
«Infatti sono qui».
Tiro su i piedi, stringo le ginocchia al petto.
«Credevo ti fossi tirata indietro».
«È il mio corpo che ti reclama, non la logica. Qui di razionale non c'è proprio niente».
Mi passa una mano sulla schiena e, con un gesto brusco, mi carica sulle sue ginocchia. Allargo le gambe, scivolo in avanti, restiamo faccia a faccia.
«Anche il mio corpo ti reclama. In continuazione».
Accarezza il ciondolo, cerca il mio seno, se ne appropria col palmo aperto, lo soppesa, poi più per inquietudine che per desiderio, ritira la mano.
«Tra qualche minuto arriva la cena».
«Decidi sempre tutto tu?».
«Più o meno».
Gli accarezzo i capelli bagnati, avverto la durezza del suo corpo sotto l'asciugamano. Mi guarda, nessuna espressione gli sfugge dagli occhi.
«Abbiamo tutta la notte».
«Non starò qui tutta la notte».
«E sentiamo: dove devi andare così di fretta? Chi ti aspetta, mh?».
«Ho anch'io i miei tempi come tu hai i tuoi. Queste sono le mie regole».
Veniamo interrotti dal rumore dell'ascensore. Mi faccio da parte, Dominique si alza e torna dentro, fa un cenno al cameriere. Io mi volto verso la città, il cielo è scuro, le stelle si vedono appena. Sento la sua voce che ringrazia e congeda, sento la sua presenza nuovamente a pochi centimetri dalla mia.
«Mangiamo?».
Mi alzo e lo raggiungo. Tre candele illuminano il tavolo, un grande vassoio posto al centro, i bicchieri alti, sottili. Sfila dal ghiaccio una bottiglia e li riempie, poi si siede, le sue ginocchia si piantano con precisione nelle mie, beve senza togliermi gli occhi di dosso, i capelli sparsi sulla fronte, in disordine. Potrei dedurre un sorriso dal bordo del bicchiere, ma forse mi sbaglio, forse vedo cose che ormai non sono più reali, sono diventata bravissima ad ingannarmi da sola. Una mano si muove rapida, afferra un gambero, lo apre con un gesto esperto e se lo porta alla bocca. Questa volta è il mio sopracciglio che si alza, ho un'espressione incuriosita che coglie e che cerca di alimentare sporgendosi in avanti. Mi porge piccoli pezzi di polpa che raccolgo dalle sue dita sollevando appena il mento, schiudendo le labbra. Il sapore si disperde sulla lingua, mi scivola in gola.
«Spero tu non stia facendo tutto questo per impressionarmi» affermo risoluta.
«Faccio tutto questo per darti piacere. È un principio diverso, non credi?».
Sposto il peso verso il tavolo, sollevo il bicchiere e, mentre torno ad appoggiarmi allo schienale della sedia, l'accappatoio si apre, il bagliore delle candele rimbalza sulla pelle, mi illumina il seno, la linea sottile che scende dentro l'inguine, le ginocchia, i piedi nudi. Mando giù un sorso, mi passo il bicchiere sulle labbra. Smette di mangiare, continua a fissarmi. Immerge la mano nel secchio del ghiaccio e si porta un piccolo cubo gocciolante in mezzo alle labbra, mi sembra di vederlo sorridere, un'altra volta, ma non ci credo ancora, perché ha gli occhi pieni di immagini che fatico a distinguere. Mi sfiora i capezzoli con il gelo delle labbra bagnate, il corpo si scuote. Traccia piccole linee discendenti sul ventre, sull'inguine, dentro la piega della gamba. Quando con la bocca mi sfiora il clitoride trattengo a stento un lamento. È la sua lingua calda a soccorrermi, ad affondarmi dentro ed è in quel bisogno di violazione che avverto l'ennesima punta di dolore e allora gli afferro la testa e me la spingo contro. Non incespica, non si interroga, sa esattamente come muoversi, come se il mio corpo fosse per lui un percorso attraversato migliaia di volte. Nel filare delle mie ciglia socchiuse vedo tutta la sua eccitazione. Mi accuccio su di lui, con la fronte spingo sul collo, immobile.
«Sei proprio sicura di non poter restare?» mi bisbiglia lentamente sulla pelle.
Vorrei potergli dire che non ho nessuna intenzione di andarmene, che questa notte, come le altre che verranno saranno completamente sue, ma non è questa la scelta sensata che mi ero ripromessa di fare. Ho una vita da portare avanti e uno spazio di lucidità in cui voglio continuare a muovermi con sicurezza. Al suo fianco resto senza tempo. Devo riuscire a salvaguardare quel piccolo spazio di confine che è rimasto inalterato, il valico che non voglio superare.
Entro in camera e cerco i vestiti, faccio tutto in fretta per non darmi il tempo di pensare. Devo andare a casa prima che un suo minuscolo gesto mi faccia cambiare idea. Mi rivesto, cerco dentro lo specchio la mia immagine. Le mie guance rosse, la pelle che brilla, non sono più la Mila di qualche giorno fa. Mi raggiunge, indossa una maglietta bianca e un paio di jeans.
«Ti accompagno».
«Chiamo un taxi».
«Non si discute. È già tanto se ti lascio tornare a casa».
Provo a sorridere perché il suo sguardo serio mi indispone.
«Dimenticavo che il mio destino è quello di restare chiusa qui in attesa del tuo ritorno».
«Infatti sei particolarmente disubbidiente. Non mi sfidare troppo, potresti pentirtene».
Il sorriso cancella la minaccia, la voce è divertita, finalmente mi rilasso.
«E cosa potresti farmi? Sentiamo».
Resta in silenzio per pochi istanti e poi mi guarda nuovamente serio.
«Lo scoprirai, Mila. Non ti preoccupare. Lo scoprirai».

DOMINIQUE

Guido lentamente tra le vie di Firenze, non parliamo, lei guarda oltre il finestrino, io fisso la strada. Non è un silenzio che divide, ma l'unione di chi soppesa il medesimo benessere.
«Sei stanca?».
«Un po'».
Si volta, ha un'espressione distesa.
«Considerando che non eri al lavoro e neppure a casa, posso chiederti dove hai passato tutto il pomeriggio?».
«Hai controllato?».
«Certo».
Mi fissa a labbra schiuse, non riesce a far uscire una parola.
«Tranquilla, mi sono limitato a telefonare in ufficio. A casa tua invece ho semplicemente scansato l'assalto della tua amica».
«Oddio. Ti ha messo le mani addosso?».
«No, però credo fosse nelle sue intenzioni farlo».
Si porta una mano al petto, gioca con la catena, accarezza il ciondolo.
«Non ti ho neanche ringraziato per il regalo».
«Mi sei sembrata più che riconoscente».
«Potrei offendermi».
«Sei troppo intelligente per farlo».
«E tu sei troppo sicuro di te stesso».
«Può essere, ma difficilmente mi sbaglio».
Le prendo una mano e me la porto alla bocca. Le bacio il palmo aperto, le pieghe profonde che solcano la pelle.
«Dove sei stata, mh?» insisto.
«In giro»
«Non me lo dirai, vero?».
Schiude le labbra, sospira piano e mi guarda con disappunto.
«Non capisco perché vuoi saperlo?».
«Perché la prossima volta che decidi di sparire voglio poterti cercare».
Fa una pausa, studia i miei gesti. Ripeto la domanda sillabando come se non parlassi la sua lingua.
«Do-ve?».
«Ero alla stazione».
Sterzo con la macchina dentro la via, freno, mi volto e la guardo.
«Quindi volevi partire?».
«No. Avevo bisogno di starmene in mezzo alla gente. È una cosa che faccio spesso» sbuffa. «È dai tempi dell'università che la stazione si presta alle mie fughe. All'epoca studiavo, preparavo esami, la gente che mi passava accanto neppure la vedevo. Nel caos c'è una zona di confine dove nessuno può entrare e in quei punti lì il mio cervello trova pace. Quando non sei nessuno, puoi concederti tutto».
«Sei una donna interessante, Mila. Dannatamente bella e decisamente interessante».
Sorride, mi guarda con aria di sfida.
«E, sentiamo: tu dove sei stato?».
«In giro».
Scendo dalla macchina mentre la sento ridere, le apro la portiera e la trascino fuori tirandomela addosso, provo a baciarla ma sposta la faccia.
«Ero al Cedar».
Fa un passo indietro, si appoggia alla macchina e fissa un punto alle mie spalle.
«E infatti devo parlarti anche di questo...» i suoi occhi si voltano impercettibilmente, sembra tesa. «Ti ho promesso diciotto giorni esclusivi, ma...».
«Non mi hai promesso niente».
Mi interrompe bruscamente, si sposta di lato allontanandosi in fretta. La raggiungo, le prendo i polsi e glieli porto dietro la schiena.
«Ferma e zitta», le bacio il lobo di un orecchio. «Il fatto è che non ti ho detto tutto. Ci sono persone a cui purtroppo devo rendere conto. C'è un'azienda a Castelfiorentino, era di mio padre, devo occuparmene personalmente, non posso delegare nessuno. Solo oggi ho capito l'entità dei problemi finanziari che hanno messo in ginocchio l'impresa».
«Oggi?».
«Questo pomeriggio ho incontrato la responsabile amministrativa. Mi ha passato tutte le informazioni che mi servivano, forse mi scanserà ulteriori perdite di tempo, ma il punto è un altro: non potrò essere sempre a tua disposizione, la situazione è piuttosto complicata».
Mi spinge addosso le labbra, le nostre lingue si cercano, riesco a desiderarla ancora, in qualunque posto, sotto qualsiasi sguardo. Butta indietro la testa, si lascia sfuggire una risata che appare incontenibile.
«Fammi capire, ti eccitano le crisi finanziarie?».
Ride ancora, mi accarezza la barba e si allontana di poco.
«Mi fai salire?» chiedo senza neanche rendermene conto.
«È meglio se vai, domani devo alzarmi presto».
Sale di corsa le scale senza voltarsi. Resto in attesa per qualche secondo, poi torno alla macchina e metto in moto. La strada è buia, eppure mi sento come se il giorno fosse appena iniziato.

OUTSIDEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora