Vieni via con me

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MILA

È sdraiato su un fianco, le gambe allacciate alle mie. Ho dormito qualche ora, ma il sonno si è sfilacciato quando la sua presenza si è fatta insistente.
«Vieni via con me».
Per quanto stessi attendendo un suo segnale non era questo quello che volevo. Non avevo contemplato la fuga, per la prima volta non mi ero programmata nulla di simile. Ho impiegato anni a capire che la vita ha una sua direzione da seguire e che non può essere quella tracciata da un altro essere umano. Mi fissa, ha un'espressione serena, neppure lo avverte il mio timore.
«Dominique io...».
Mi bacia di nuovo, questa volta affonda con la lingua, cerca la mia, provo a sottrarmi ma la forza della sua mano stretta attorno alla nuca è più forte. La volontà è un luccichio che inganna gli occhi, il desiderio è un abisso, non ce l'ho la lucidità della ritirata. La mia coscia avverte l'erezione che si muove un'altra volta contro di me, il fremito risponde, detta ogni riflesso. Apro le gambe e gli salgo sopra a cavalcioni.
«Non posso».
Si solleva con i gomiti spingendosi indietro. Appoggia la schiena al muro, neppure mi guarda, asseconda il movimento.
«Sshh».
L'umidità del mio corpo scivola sulla sua dura consistenza, ne ammorbidisce il passaggio. Tra noi passa qualcosa di velocissimo, un saettare di sentimenti e io li capto, mi illudo che siano reali e li seguo senza pensare, non ce l'ho più una ragione ovvia per rifiutarlo. Sorrido senza neppure rendermene conto, è lui questa volta che intercetta qualcosa, allora sposta rapido la testa, mi guarda, studia la mia espressione.
«Hai cambiato idea?».
Gli passo le dita sugli zigomi mentre inizio ad ondeggiare piano.
«No».
Con entrambe le mani mi afferra i fianchi e mi solleva, mi allontana di poco, provo a forzarlo a scendere un'altra volta su di lui, lo rivoglio dentro.
«Ho qualche possibilità di farti ragionare?».
Avvolge un capezzolo con i denti, lo stringe fino a farmi male. Il dolore che avverto si tramuta in piacere.
«No».
Mi bacia sul collo, sale fino all'orecchio e mi morde il lobo, poi scende di nuovo e soffia sulla pelle ormai infiammata.
«Sei proprio sicura?».
Spingo nuovamente nella sua direzione, sfrutto il peso del corpo, il delirio della passione. Le sue mani allora mi afferrano, mi trattengono, bloccano ogni movimento, provo a spostarmi ma non ci riesco.
«Questo è scorretto».
Scuote la testa con fierezza, fa un sorrisetto come se non dovesse minimamente ragionare.
«Non sei nella posizione per potermi dare del disonesto».
«Lasciami».
«Vieni via con me».
Ricomincia a mordermi il collo e poi scende un'altra volta sul seno, con la lingua disegna cerchi, sfiora ogni terminazione nervosa, la solletica. Gemo, non riesco a trattenermi, sono stremata.
«No».
«Sei proprio sicura?».
Scioglie la presa e mi lascia andare. Ricomincio a muovermi ormai schiava del mio piacere, sfrego contro la sua erezione, la mia mente si riversa dentro le sue parole. Il mio corpo rende così la sua confessione, si lascia sconvolgere dall'orgasmo, stringo le palpebre per non doverlo guardare, per nascondere, prima di tutto a me stessa, quello che di più inconfessabile trattengo.
«Sei ancora così sicura?».
«No».
Crollo, mi lascio cadere di spalle sul letto, sono un fascio di nervi senza peso. Esplora gli spigoli dei miei fianchi, li esamina lentamente e poi mi volta a pancia in giù. Senza aspettare oltre, inizia a penetrarmi con foga. Non so più cosa voglio, sto perdendo completamente il senso della realtà. Con lui abbandono ogni riferimento temporale, tutti i miei desideri si concentrano in una direzione, non voglio altro e non so pensare ad altro. La sua voce si spegne d'improvviso e mi crolla addosso generando una pressione fisica che spezza il fiato. C'è questa cosa che mi fa sostare a metà strada tra la paura e il desiderio e che non so controllare, come se tutto fosse un'unica cosa, un unico intento: l'intento di concedersi, l'intento di lasciarsi amare.
Esce dal mio corpo e mi sento svuotata. Chiudo gli occhi. I suoi passi si spostano per la stanza, avverto il rumore dell'acqua, delle mani su oggetti che mi sono sconosciuti, dei piedi sulle piastrelle. Un attimo dopo capto nuovamente la sua presenza al mio fianco, sospiro tra le lenzuola. Il suo braccio mi passa accanto, si avventa sulla pancia, la raccoglie, la stringe.
«Te ne andrai, vero?», questa volta sono io a muovere una richiesta.
«Verrai via con me?».
Risponde con un'altra domanda, è il suo modo piuttosto lucido di non darmi alternative. Vorrei piangere ma trattengo il tormento. Gli ho detto che lo amo e lui continua a mandarmi segnali a cui non so dare una definizione e io ho bisogno di definizioni, di termini esatti con cui classificare i sentimenti. Le parole sono porti sicuri dove approdare. Con lui invece sono sempre in balia del mio disordine. La passione che ci unisce è alimentata dal medesimo caos. Un'altra parte di me invece si dispera, realizza che l'uomo a cui mi ostino a chiedere amore, non sarà mai in grado di darmi quello di cui ho bisogno, perché manca di tempismo emotivo, perché non può andare oltre se stesso. Perché non può andare oltre me stessa.
Non mi muovo. Resto ferma, arginata dal suo corpo, vorrei spegnermi dentro questo abbraccio senza radici. Vorrei poter anestetizzare la paura fino a perdermi, fino a dimenticare tutto. Vorrei smettere di pensare e lo faccio, d'improvviso, addormentandomi come se non avessi altra scelta.

DOMINIQUE

Ha un sonno disturbato, si muove e qualche volta le scivola via un verso dalle labbra. Ripenso al suo profilo spaesato, ancorato al davanzale, si guardava attorno stringendosi le braccia al corpo, non c'era nessuno al suo fianco. Ritrovo il nostro ballo, il suo bacio, la nostra fuga. Il suo regalo. Il suo ti amo. Quello che io non riesco ad elaborare, a fare suo. Forse perché non sono suo. Sono figlio di un sentimento vuoto e privo di qualsiasi misura, non conosco tregua. Non voglio abituarmi a lei e allo stesso tempo non posso pensare di non averla. Mancano tre giorni alla fine dell'accordo. Ho un biglietto aereo e una valigia pronta. So esattamente cosa fare, ma non so se lei potrà accettare di farlo assieme a me.
Mio padre partiva, abbandonava, io voglio partire e continuare a viaggiare. Con lei, solo con lei.
La sua voce lacera il silenzio con un lamento. Ha gli occhi chiusi, continua a dormire, muove la testa. Mi abbasso e le sfioro la fronte, è umida. Si volta nella mia direzione, il respiro si assesta. Avverto l'urgenza del termine e sto spingendo tutto in una sola direzione, precipito dentro la necessità di rapirla, di farla mia. Sfilo il braccio da sotto il collo, lentamente, trattenendo il fiato nel timore di svegliarla. Mi infilo i pantaloni, le scarpe e indosso la camicia. Esco dalla stanza, il corridoio è spettrale, piccoli rumori in lontananza e poi il buio. La notte è calata su tutto, come questo silenzio privo di musica e parole. Il piazzale è sgombro, le torce sono state spente, il viale accoglie la luce della luna. Mi accendo una sigaretta e aspiro piano. Vorrei svuotarmi da questa impazienza che alterna euforia a nervosismo. Mi incammino, ripercorro la strada fatta prima al suo fianco. I sassi si muovono sotto le scarpe e sgranano metri. Butto fuori il fumo, la sigaretta è a terra, scavalco il muretto e attraverso un'altra volta il prato.
Sono di nuovo sotto le sue fronde, l'aria mi smuove la camicia aperta, un brivido mi percorre la pelle. Non ho freddo però sento premermi addosso il fastidio dei ricordi. La voce di mio padre è un sussurro che sfuma e mi confonde. Non l'ho visto prima di morire e non lo rivedrò sicuramente ora, neanche se mi concentro e butto l'amo verso il passato e tiro e cerco un istante trascorso insieme a lui. So di non potercela fare e allora ripenso a quando è morto, alla telefonata dell'assistente che mi metteva al corrente dell'incidente, all'immagine della sua macchina scagliata a tutta velocità dentro una profonda gola nei pressi di Bcharre. È questo il ricordo che di solito mi scompone l'angoscia, che mi riporta al presente. Stanotte però qualcosa avanza spedito, un proiettile scuro, quasi invisibile, che non riesco ad evitare. Ritrovo così quell'immagine che da troppo tempo cercavo, mi scontro con la mia storia e accuso il colpo con il piacere subdolo di chi colpisce prima di essere abbattuto.
Un altro luogo, molti anni prima, stessi odori, stesso silenzio. Io e lui, da soli. La gita tra i vigneti, gli ulivi e il lungo cammino sotto i cedri. Quell'odore è ancora così forte che fatico a respirare ripensando alla mano che mi trainava, dove l'aria era fredda e la neve si increspava sui costoni della montagna. Mia madre non c'era e io correvo per stare al passo con la sua lunga falcata. Il fiato si accorciava, ma trattenevo ogni lamento. Ero Gilgamesh che seguiva l'amico Enkidu mentre assalivano la foresta dei cedri. La mia mente seguiva un percorso narrativo che mia nonna aveva alimentato con cura raccontandomi più volte l'Epopea di Gilgamesh, una versione che personalizzava ogni volta aggiungendo dettagli sempre nuovi. Ero un re alla ricerca dell'immortalità e mio padre era il mio compagno di viaggio, Enkidu che, secondo mia nonna, a un tratto della storia spariva, ma che nel testo originale moriva.
Quel pomeriggio i cedri erano stati il nostro tetto, l'unica casa che era riuscita ad ospitarci veramente. Rientrando a casa fissavo la strada mentre lui guidava, imboccava ogni tornante al limite del precipizio. Ridevo trattenendo le urla con cui invece avrei voluto invocare la paura, non volevo mostrarmi timoroso del suo potere. Rideva anche lui, ma travolto dall'euforia. Ricordo di essermi accucciato tra i sedili, per non vedere il baratro che ricompariva a ogni curva; ricordo di essermi addormentato, stremato dalle pulsioni del corpo. Il giorno dopo la luce era entrata in camera e mio padre sembrava essersi dissolto nel nulla. Per quanto avessi provato a cercare e chiedere, lui non c'era e non c'erano neppure risposte in grado di soddisfarmi.
Appoggio la fronte alla corteccia e aspiro quel contatto mentre la pelle si piega dentro a una smorfia di dolore. Parto per anticipare l'abbandono. È questo quello che faccio. Maschero le paure, proprio come quando credevo di dovermi mostrare temerario e invece ero solamente un bambino.

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