Tornare indietro

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MILA

Fisso il soffitto. Le ombre si allungano ovunque mentre il sole fuori sorge. Non riesco ad alzarmi. La testa mi esplode, gli occhi lanciano fitte. Mi giro su un fianco, sprofondo la faccia dentro il cuscino. Avverto il cigolio della porta che si apre, ma non mi muovo. Una mano mi tocca la caviglia, sposto il piede di riflesso. Il materasso si abbassa di poco, riconosco il profumo di Sara.
«Non vai al lavoro?».
«No».
La mia voce si perde tra le lenzuola.
«Ieri sera il teatro era pieno».
Non ci siamo viste, non sa nulla, ma ha capito che c'è qualcosa di sbagliato in tutto questo, non mi sono alzata, non mi sono avventata sulla porta rendicontandole l'ennesimo ritardo, l'ennesima urgenza. Lo so che si aspetta una spiegazione, invece non riesco neppure a interessarmi a lei, non riesco a farmi avanti.
«Mila, cosa è successo?».
Cerco una confortevole bugia dentro cui oscurarmi, ma non trovo niente di buono da dire e allora resto zitta. Le sue labbra si adagiano piano sulla tempia, con una mano mi carezza i capelli, non resisto al contatto e ricomincio a piangere. Continua a massaggiarmi la testa, non smette neanche quando i singhiozzi si esauriscono. Apro gli occhi, le afferro una mano e spingo le gambe oltre il letto. È come se fossi malata, come se un peso enorme mi premesse sulla testa impedendomi di camminare. È lei che mi guida lungo il corridoio, fino al tavolo della cucina e sempre lei mi passa il caffè invitandomi a bere. Lo stomaco è chiuso, l'odore del cibo mi dà la nausea.
«Non ce la faccio».
Mette da parte la tazzina e si avvicina con una sedia.
«Hai parlato con Dom?».
La testa mi scuote di dosso un no che lancia fitte di dolore lungo tutte le articolazioni.
«E cosa è successo allora?».
Mi passo una mano sugli occhi, butto indietro la frangia.
«Marco mi stava baciando, e Dominique ci ha visti».
«In che senso Marco ti stava baciando?».
«Mi ha aggredita, io non lo volevo. Credimi, non so cosa sarebbe successo se non fosse arrivato qualcuno».
«Quel gran figlio di puttana!».
Spingo il palmo sugli occhi, l'urgenza di dirle tutto mi preme in gola.
«Dominique mi chiedeva, voleva sapere, pretendeva che io gli dicessi qualcosa per giustificarmi, ma non c'è niente da giustificare».
Piego la testa in avanti e appoggio la fronte al tavolo. La superficie fredda mi dà sollievo.
«E tu glielo hai detto? Gli hai raccontato come sono andate le cose?».
«Non capirebbe».
Si alza, fa il giro del tavolo e mi raggiunge di nuovo.
«Mila, è sempre il solito discorso. Devi parlargli, se non gli dici cosa provi e perché ti sei comportata così non può capire. Ti prego, ragiona».
Alzo la testa di scatto e la guardo.
«Ma cosa devo dirgli? Cosa? Che mi scopavo Marco? Ma lo capisci che niente di quello che faccio funziona?».
«Digli che lo ami, inizia da questo».
«Che lo amo? Qui non so neanche se si possa parlare d'amore».
«E invece lo sai. Lo sai benissimo. Ma aspetti sempre che siano gli altri a dirtelo».
Il suo giudizio mi pressa contro lo sterno, lo buca come un ferro rovente.
«Mila, non c'è nessuno che può dirti come vivere e lui tra meno di una settimana parte. Parte! Hai capito? Non lo potrai incontrare in strada, vedere dentro a un bar, non ci sarà più. O ti muovi ora o sarà tutto di nuovo come prima».
«Lo so! Lo so benissimo, ma non ce la faccio!».
«Devi chiedere aiuto, Mila. Solo così ci si salva».
Quel bisbiglio mi sfonda il petto. La voce di Sara. La voce di chi mi chiamava. La voce che ho finto di non sentire. Ero una bambina. Quelle voci, come sassi mi tirano giù verso il fondo, dentro gli abissi, dove non c'è luce, dove i rumori si perdono dentro bolle che risalgono troppo in fretta. Io resto indietro, sempre indietro.

Chiama aiuto. Scappa. Cerca aiuto.

Lascio la cucina e vado in bagno. Affondo la faccia dentro l'acqua, spingo con forza sul rubinetto e lascio che il getto mi colpisca furiosamente, i segni della notte si infilano rapidi dentro lo scarico. Sara mi aspetta in camera con un vestito in mano, mi sforzo di sorridere mentre mi aiuta ad indossarlo. Ha ragione lei, devo andare da Dominique, spiegargli tutto e convincerlo che non c'è niente di sbagliato in quello che è successo e, prima di tutto, devo convincere me stessa. Marco è un passaggio che non conta, appartiene a una Mila che stenterei a riconoscere. Quello che è successo in questi giorni mi ha cambiata profondamente.
Raggiungo la porta scortata dalle mani della mia amica, dai suoi occhi castani così benevoli, dalla stretta delle sue braccia affamate.
«Avvisa pure in studio che questo pomeriggio non ci sarai».
«Non posso. Sono giorni che vado via prima».
«E allora? Hai bisogno di stare bene per poter lavorare bene. Passo a prenderti e usciamo. C'è un abito da sera che ti aspetta».
Mi ero completamente dimenticata dell'anniversario dei miei genitori ed è anche l'ultima cosa che voglio fare, ma non posso tirarmi indietro, mia madre non me lo perdonerebbe mai. Sospiro, mando indietro il fastidio, un'altra volta senza farcela, un'altra volta senza muovermi.
«Va bene. Adesso però devo andare».
«Vai da lui».
Sorride e resta a guardarmi mentre mi chiudo la porta alle spalle. Scendo in strada. Prendo il telefono e scorro il display con un dito, la nostra foto è ancora lì. Sembra tutto così lontano. Cerco la notifica di un messaggio, ma niente, non c'è niente. Non so se sto facendo la cosa giusta. Non so cosa troverò dentro ai suoi occhi quando lo rivedrò e ho paura. Paura di sbagliare un'altra volta. Attraverso la strada, guardo l'orologio, è tardi. Cerco il badge della sua camera nella borsa ma non lo trovo. L'ansia mi assale, non posso farmi ostacolare da un dettaglio così stupido. Arrivo davanti al JK ed entro senza neppure guardarle le persone assiepate davanti alla porta. L'aria condizionata mi viene incontro mentre attraverso la hall. Alla reception una ragazza mi fissa incuriosita, poi sorride come mossa da un comando esterno.
«Il signor Gibrain è in camera?».
Mi osserva senza parlare, è indecisa.
«Sono Mila Gori, mi avete assegnato un badge. L'ho dimenticato a casa, ma...».
Sorride un'altra volta, questa volta con più convinzione.
«Signorina Gori, buongiorno. Il signor Gibrain è uscito da circa un'ora. Deve salire in camera?»
Mando giù l'aria a fatica.
«No, la ringrazio».
Mi volto e torno in strada. Il caldo si abbatte nuovamente sulla pelle. Non mangio da ieri e inizio ad accusarne le conseguenze. Entro in un bar, prendo un caffè e una bottiglia d'acqua. Solo il gesto di bere mi restituisce un po' di forza. Sono spinta dal desiderio di riavere indietro tutto ed è un desiderio così forte ed assoluto che aumento il passo. Ho mascherato per troppo tempo una parte di me che non sapeva minimamente come mostrarsi e adesso non posso tornare indietro. Svolto l'angolo e intravedo la vetrina del Cedar. Il sole balugina sul telo bianco che copre i tavoli all'esterno e riflette la luce sul vetro. Temporeggio a pochi passi dalla porta, non riesco a vedere oltre la soglia, ma mi obbligo a respirare, a camminare, a non concedermi nessuna resa. Entro e incrocio subito i suoi occhi, è davanti al bancone, mi guarda. Al suo fianco c'è una donna, non l'ho mai vista prima, non so chi sia. Resta fermo nella sua posizione, continua a guardarmi. Respiro profondamente e mi avvicino.
«Devo parlarti».
I suoi occhi accusano il colpo, lo vedo, non posso sbagliarmi.
«No».
Mi sistemo la frangia con le mani, sposto indietro i capelli che si sono incollati al collo. Provo a mantenere la calma ma non ci riesco.
«Dobbiamo parlare».
Toglie lo sguardo. La sua mano scorre lenta sulla schiena della donna al suo fianco, se la tira più vicino e poi la spinge verso l'interno del locale.
«Come vedi ho altro di cui occuparmi».
Un cameriere gli passa accanto, Dominique lo ferma, mi indica.
«Non far entrare nessuno in sala, men che meno la ragazza».
Trattengo a stento le lacrime, non riesco a mostrarmi forte neppure in questa situazione assurda. Mi volto ed esco in strada. Vorrei sparire dentro la terra, farmi divorare dall'oscurità. Vorrei tornare indietro, cambiare tutto. Vorrei solo non averlo incontrato mai.

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