Acquario ascendente pesci

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MILA

Il caldo mi imperla le tempie mentre salgo sui tacchi e controllo ogni dettaglio allo specchio. Rido dei commenti di Sara che, dall'altro lato della stanza, lamenta fallimenti estetici. Usciamo con un sorriso marcato dal rossetto, le scale rimbombano ad ogni passo, non c'è instabilità quando siamo insieme. Dalla strada lo sguardo cupo del cielo mette paura, una macchia di ruggine spinge avanti la pioggia. Sara ha provato a chiamare un taxi, la linea continua a cadere, nessuno risponde. Così, all'ultimo, decidiamo di avviarci a piedi. L'euforia si esaurisce alla prima goccia di pioggia, ci stringiamo nei gomiti e cerchiamo riparo lungo i muri delle case. Non avevamo previsto ombrelli, quindi restiamo sotto un colonnato per alcuni minuti a fissare il cielo.
«Senti, non ho intenzione di rinunciare alla mia serata. Il locale è dietro l'angolo, se facciamo una corsa arriviamo senza bagnarci troppo. Cerca solo di non romperti una gamba cadendo dai tacchi, che poi Marcolino ti porta le pratiche a casa e io devo andarmene a dormire da mia madre».
Non aspetta neppure una risposta, si avvia di corsa mentre io mi impongo di starle dietro, di non inciampare nel profilo viscido del marciapiede. Un gruppo di persone è ammassato sotto un telo bianco che gocciola pesantemente ai bordi. Il locale è luminoso, la gente se ne sta accalcata sulla porta, fatico a farmi spazio tra le persone, ho i capelli bagnati e la bocca asciutta. Non riesco ad orientarmi, devo sedermi e prendere possesso della zona. Sara sembra leggermi nel pensiero e mi fa cenno di seguirla, si infila rapida tra le schiene appoggiate al bancone. I bicchieri le scintillano davanti al viso, intralcia il passaggio dei camerieri, ma non retrocede. Due uomini convinti di poterci rimorchiare in tempi brevi si fanno da parte, liberano le sedute, Sara se ne appropria in fretta, volta loro le spalle senza ringraziare e mi invita a seguirla. La imito e mi spingo a fatica contro il bancone. La luce bianca dei led mi illumina le gambe bagnate, cerco di asciugarmi con un fazzoletto ma l'impresa sembra impossibile. Non trovo pace, avverto un moto di disturbo che non riesco a tenere a bada, Sara stranamente non mi parla, arriccia la fronte e borbotta, quando cerco di decifrarne il motivo accenna un sorriso. Mi giro verso il bancone, c'è un movimento caotico, un mulinare di teste privo di logica. Lo vedo prima che lui mi veda. I tatuaggi delle braccia si tendono in avanti, le mani indicano un ripiano, due bottiglie oltre il bancone, dove cadono a terra alcuni piatti sollevando un frastuono che mi pare comunque lontano; qualcuno grida, lui invece non batte ciglio, neppure li vede i cocci che si spargono ovunque perché, in quel preciso istante, quando anche l'ultima bottiglia cade, resta immobile dentro la sua posizione e mi guarda. Lo sento prima che lui lo dica. I suoi occhi che mi fissano, il sorriso che si apre compiaciuto, fin troppo esplicito.
«Eccola».
Non riesco a parlare, l'aria non passa dalla gola. È ancora più bello di come me lo ricordavo. I capelli castani ordinati dentro un'onda semplice, gli occhi neri, bui, le spalle larghe. Mi posiziona davanti al naso un bicchiere vuoto e lo indica con un gesto rapido del mento.
«Chianti?».
Alle sue spalle è il caos, ma non le seguo neppure le mani che sollevano stracci, che spostano aria, sono troppo concentrata a trovare un'espressione adeguata al mio stato d'animo.
«Ullalà, chi si vede!» una voce familiare anticipa la mia risposta. «Carissimo! Il mio nome è Sara e, ti prego, segnatelo su un tovagliolo perché temo che lo dimenticherai presto».
Altre mani che si stringono, altri gesti che richiamano azioni, lui di rimando mi guarda e contrae la mandibola.
«Lei è Mila e forse vi siete già visti. Oddio, visti non so, ma sentiti di sicuro».
Ride sguaiata e io vorrei ucciderla ma non ne ho le forze e quindi la lascio fare.
«Comunque, dato che fa la timida, posso dirti che è un acquario ascendente pesci, adora il gelato alla nocciola e tutte le sue password sono composte dal trittico della parola cuore. Una cosa imbarazzante, ne sono consapevole».
Sara si aggrappa al bicchiere di vino mentre la mano dell'uomo che mi sta portando un'altra volta fuori controllo si avvicina.
«Mila, io mi chiamo Dominique, sono un ariete ascendente sconosciuto e, senza ombra di dubbio, non dirò mai le mie password in presenza della tua amica».
La sua stretta è vigorosa, la mia neppure si sente. Il cuore manca un colpo o forse ne ha esploso uno in più, non riesco a capire. Resta in attesa di un gesto che non muovo, di una risposta che non riesco a dare. Sara solleva un'altra volta il bicchiere, la imito senza accennare un sorriso. Bevo piano e scongiuro il vino di farsi strada, voglio uscire da questo stato di paralisi. Le labbra mi si infiammano, la gola brucia, sfioro un'altra volta il bordo del bicchiere e ci resto appoggiata come se temessi di caderci dentro.
«Dominique! Dove sei stato rinchiuso fino ad ora, mh? Sono certa di non averti mai visto in giro e fidati che l'Istat conta su di me per fare la somma dei maschi in zona».
«Sono a Firenze da pochi giorni» risponde.
«E sei sceso da Marte?».
Sara continua imperterrita nelle sue allusioni e lui le tiene testa.
«Marte mi manca, ma il viaggio è stato comunque piuttosto lungo».
Due cameriere ci passano accanto, i vassoi carichi di bicchieri traballano, lui si gira un attimo prima che uno dei calici cada, lo afferra al volo, si allontana di qualche passo e inizia a dare indicazioni, imperativo e allo stesso tempo gentile. Raccolgo tutte le mie forze per sfruttare l'attimo di disattenzione, scendo in fretta dallo sgabello e mi spingo oltre la folla, devo assolutamente prendermi un secondo per respirare. Fortunatamente imbocco la direzione giusta, una scala porta al piano di sotto, seguo l'indicazione per la toilette. Scavalco un gruppo di ragazze ferme sui primi gradini e scendo di corsa, la porta del bagno è aperta, me la chiudo alle spalle e resto ferma, oltre la soglia, a fissare il vuoto di un lavandino nero.
Quante probabilità avevo di rivederlo? Nessuna, eppure sono qui e sto scappando. Non voglio dovermi presentare, raccontare, giustificare. Nei minuti che siamo stati insieme non lo so neppure io chi ero, cos'ero, e preferisco evadere dall'ambiguità delle facili interpretazioni. Vado allo specchio e mi sistemo nervosamente la frangia, con una salvietta tolgo il trucco sbavato, respiro stremata dal caldo, dalla fatica. Continuo a ripetermi che posso salire e continuare la serata senza sentirmi legata a nessuno, che sono libera di vivere come mi pare, ma neppure io ci credo, perché lo so come sono fatta e le debolezze che mi porto dentro sono troppe e tutte ingestibili. Apro la porta e torno fuori, le scale sono libere, avverto il brusio della musica che piove dall'alto, le voci della gente, il rumore dei passi. La porta alle mie spalle è spalancata su una cantina piena zeppa di bottiglie, butto la borsa sulla consolle al mio fianco e resto in attesa che scemi l'assurda volontà di tornare a casa. Ho bisogno di riempirmi d'aria per risalire, mi serve ancora un minuto di vuoto per ristabilire la calma.
Un'ondata di gelo sale dal basso, accarezza le gambe come una corrente sotterranea. L'organismo si rimette in moto, il viso si stempera e finalmente il corpo alleggerisce di poco il peso. Il freddo mi invade un'altra volta e questa volta sono le braccia ad essere sfiorate da uno spiffero inopportuno, mi volto per cercare l'origine di quella corrente ed è lì che lo vedo, nella semioscurità della cantina, piantato come un albero in mezzo al gelo. Senza mancare un passo mi viene incontro, deciso, estremamente risoluto. Un'ombra nell'ombra. Non riesco a resistere, qualcosa dentro la mia testa manca un'altra volta il colpo. Forse avverte le mie intenzioni, forse le anticipa, mi prende con entrambe le mani e nel farlo mi solleva da terra bruscamente, mentre gli afferro la nuca e me lo tiro contro. Sbatto la schiena sulla parete di legno, rinforzo la stretta, sollevo il mento, lo cerco e lui ricambia lo sguardo.
«La smetti di scappare, mh?», mi sussurra a fior di labbra.
Si prende il tempo per fissare il mio desiderio, per quantificarlo e, senza aggiungere una parola, si inginocchia, mi issa sulle spalle. È la sua testa che avverto tra le gambe, la sua bocca che respira sulla stoffa, il calore del suo fiato che manda in circolo il delirio. Con lui non riesco a calibrare niente, è come se il mio mondo fatto di ordine e dedizione si ribaltasse. Alzo le braccia, afferro uno scaffale poco sopra di me, il mare mi monta dentro in tutta la sua burrasca e, respirando appena, vengo scossa dal tremore dell'eccitazione. Mugolo di piacere e perdo definitivamente il controllo. Appoggio i piedi a terra mentre con le mani mi sfila gli slip. Lo allontano, lui di rimando molla la presa e mi osserva, potrei andarmene, non forzerebbe le cose, ne sono certa, ma la tempesta è esplosa e io non posso fare niente per salvarmi. Gli abbasso i pantaloni e lo spingo su una cassapanca accostata al muro. Si siede con un colpo sordo e gli monto sopra, lo sento ridere.
«Adesso ti riconosco», bisbiglia piano.
Non lo so nemmeno io da dove arriva tutta questa furia che mi esplode dentro. Una voce rotola giù dalle scale.
«Dom! Ti muovi con quelle cazzo di bottiglie?».
Trattengo il fiato, potrei cadere se solo non mi stringesse con così tanta forza.
«Ho capito, scendo a prenderle. Di te non ci si può proprio fidare!».
Faccio leva con i gomiti e mi sollevo d'impeto senza aspettare. Butto fuori l'aria tutta d'un colpo e l'ossigeno torna al cervello. Mi afferra un polso ma strattono la mano, scioglie la presa, recupero la giacca dal pavimento e salgo di corsa le scale. L'ombra di un uomo si sposta di lato per lasciarmi passare, non ho neanche il coraggio di guardarlo in faccia, mi vergogno come una ragazzina. Devo trovare Sara, ma tra la folla sembra impossibile persino vedere l'uscita. Raggiungo di corsa la porta, l'aria fresca mi sbatte in faccia. Non piove più, la strada è uno specchio e allora rallento per non scivolare. Sento dei passi alle mie spalle, ho il pensiero di lui che si muove ovunque e l'idea di sentirmelo addosso un'altra volta inganna persino la logica. Una mano mi afferra un gomito spingendomi dentro il vicolo, sollevo la testa e me lo ritrovo a pochi centimetri dal naso. Non mi sono immaginata nulla, è di nuovo qui, mi ha seguita, non mi ha lasciata andare, è venuto a prendermi.
«Io adesso devo tornare dentro».
La sua lingua mi cerca, scansa la mia, scivola sulle labbra, le lecca piano, diligentemente.
«Il locale è pieno, ma ti devo rivedere e non ammetto repliche».
Mi guarda tenendo il naso premuto contro il mio. Sento il suo odore scandire ogni singola parola.
«Non ammetto repliche, Mila. Hai capito?».
Faccio di sì con la testa. Non riesco a dire niente. Non riesco a parlare. Mi bacia e questa volta è un bacio lento, dolce, che non affonda. Si stacca, abbandona le mani e si allontana. Quando lo vedo sparire oltre l'angolo, mi stringo le braccia al corpo per non disperdere il calore.

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