Senza opporre resistenza

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MILA

Ho dormito profondamente. Il pianto mi ha scossa al punto da farmi assopire, l'alcool ha fatto il resto. La testa mi esplode, devo assolutamente alzarmi, ma ogni movimento segue a stento la volontà. È già mezzogiorno, voglio parlare con Sara, devo prepararmi, devo partire. Un'onda di nausea mi sale in gola, torno a sdraiarmi, respiro e lascio che i ricordi tornino a depositarsi dentro agli occhi.
Ieri sono tornata dentro il locale e ho iniziato a bere senza darmi un limite, volevo dimenticare tutto. Mi hanno trovata che me ne stavo sdraiata a terra, nei bagni. Una volta a casa ho iniziato a vomitare, piangevo, scongiuravo tutti di andarsene, di lasciarmi sola, ricordo più persone, ma fatico ad associare un volto a un nome. Sara mi ha tenuta per mano, sistemata dentro le lenzuola pulite.
Mi alzo lentamente, respiro per tenere a bada lo stomaco, ad ogni passo sento il cervello sbattere da tutte le parti. Esco dalla stanza, mi avvicino alla porta dell'altra camera, avverto delle risate, il senso di colpa scivola via, raggiungo la cucina, apro un pensile, sposto bottiglie e alla fine trovo del paracetamolo. Me lo infilo in bocca, mando giù un bicchiere d'acqua e mi siedo appoggiando i gomiti al tavolo, la testa affondata dentro i palmi delle mani, il frammento di quella notte ancora conficcato negli occhi.
La porta di Sara si apre di colpo, quando alzo lo sguardo intercetto la sagoma di un ragazzo alto e biondo, attraversa in fretta il corridoio, mi guarda appena, si scompone i capelli con la mano e, ciondolando dentro un'andatura ridicola, apre la porta ed esce. Il vuoto delle scale lo risucchia, il tonfo della porta mi riporta indietro. Torno a fissare incuriosita il corridoio, Sara appare come una proiezione, ha i capelli sparsi sulla fronte, in disordine, mi fissa per qualche secondo e riconosco quello sguardo, l'urgenza della bocca socchiusa, la volontà di dire mille cose senza sapere esattamente da che parte iniziare.
«Sei proprio fortunata amica mia, David si è dedicato tutta la notte a farmi passare l'incazzatura».
«E ci è riuscito?».
Mi appoggia la testa alla spalla e sospira.
«Eccome se ci è riuscito».
«E chi è David?».
«Un piccolo amico».
Mi ritrovo a ridere aggrappata alle sue braccia e quell'abbraccio mi restituisce la capacità di sentire le scosse nervose di un corpo che credevo essersi guastato.
«Adesso puoi spiegarmi come ti è venuto in mente di ubriacarti in quel modo assurdo?».
«Dominique».
«Non devi neanche nominarlo».
«L'ho visto ieri sera».
Sgrana gli occhi e mi fissa stupita.
«Era al Blue Velvet?».
«Sì».
«E cosa ti ha detto?».
«Niente. Le solite cose: che mi vuole per un giorno o due e poi basta».
«E tu?».
«E io gli ho detto che non mi basta».
«Non so se voglio sentire il resto».
«Tranquilla, non c'è nessun resto. Se ne è andato. Non mi vuole».
Si passa una mano sugli occhi, spinge indietro i capelli e poi mi guarda.
«Mi spiace».
Sento forte l'impulso di descriverle minuziosamente il tormento della notte, i crampi allo stomaco, gli spasmi del cuore, quella dannata sensazione di voler sparire e non tornare più, ma le parole affondano, la saliva spinge tutto dentro lo stomaco.
«Meglio così».
«Già».
Mi accompagna in camera, perché è lì che sono diretta ed è da lì che devo ripartire. Si mette ad armeggiare silenziosamente con i vestiti. Lo sa che devo raggiungere i miei genitori e farli felici, ancora una volta, ancora e ancora, come se il mio credito nei loro confronti non fosse destinato ad esaurirsi mai. Sta cercando di rendermi tutto più semplice, si è messa in mezzo tra il mio dolore e i miei obblighi familiari. Non è giusto, non posso costringere Sara a prendersi cura di me, non posso scompensare la sua vita per tenere a bada la mia. La sento canticchiare mentre sono sotto la doccia, fischietta quando torno in stanza, ha già organizzato tutto: la valigia è pronta, il vestito è chiuso dentro la sua custodia, il beauty mi fissa dall'angolo del letto. Si avvicina e mi abbraccia.
«Adesso profumi di buono».
Mi siedo a terra, stanca, frastornata. Sara si inginocchia e mi guarda. Sono senza pensieri, fatico a ritrovarmi.
«Devi andare».
«Lo so, e non ne ho voglia».
«Che casini che combiniamo io e te».
Inizia a raccontarmi della serata, ripercorre i momenti peggiori con la solita leggerezza che la contraddistingue. Io riversa a terra, in bagno, Pietro che mi recupera scacciando via in modo isterico le altre donne presenti. Sempre io che gli accarezzo la testa continuando a dire che lo amo e lui che mi allontana blaterando svariate volte un pietoso «amore mio, non posso».
Ritrovo il sorriso, mi passo una mano tra i capelli e li sento asciutti, allora guardo l'orologio e balzo in piedi preda del tempo.
«Devo partire altrimenti non riuscirò ad arrivare in orario e mia madre potrebbe impazzire. Sei sicura di non voler venire?».
So benissimo che la mia è una richiesta al limite del capriccio, ma non posso pensare di trovarmi lì da sola, in mezzo ad una corte di sconosciuti.
«Mi piacerebbe, te lo assicuro, ma lo spettacolo è troppo importante».
Mi avvicino e la bacio.
«Cercherò di sopravvivere».
«Con quel vestito li farai secchi».
Prendo le borse, mi carico in spalla l'abito e vengo schiacciata dal peso dell'involucro, dall'ingombro delle responsabilità. Ci salutiamo sulla porta, silenziosamente, con un fruscio di fiati sulle spalle e nessuna parola a disorientare il fastidio. Scendo direttamente in garage, carico il minuscolo bagagliaio della Cinquecento e parto.
In questi giorni c'è sempre stato Dominique alla guida, il suo dominio indicava la strada. Ogni cosa che prima consideravo normale, ora è diventata l'eccezione. Il suo mondo è sceso così profondamente dentro al mio che fatico a rintracciare le abitudini.
Mia madre avrà sicuramente già chiamato, ma preferisco non guardare il telefono, non voglio sentirmi pressata. Ha sempre desiderato rendermi più simile a lei, come se in quell'ostinazione si potesse nascondere un'identità utile a liberarmi la via. Invece io non sono nessuno, la mia storia si è interrotta proprio quando doveva iniziare. Affronterò il suo profilo appuntito, così diverso dal mio, il suo profumo ingombrante, parlerò con mio padre, devo dirgli che a fine praticantato lascerò lo studio di Bollani, voglio sfruttare le mie capacità e per farlo devo prendere le distanze da tutto. Non voglio rivedere Marco. Mi mancano pochi mesi per chiudere e poi potrò andarmene senza problemi. Si tratta solo di mantenere la calma e di stringere i denti. E poi voglio ragionare da sola, sulla misura delle mie scelte professionali, sul peso della mia vita. La strada mi viene incontro e la riempio a tutta velocità. Apro il finestrino e lascio che l'aria entri scompigliandomi i capelli. È da questo tipo di disordine che voglio ricominciare.

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