La vita è semplice

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DOMINIQUE

Sono seduto a terra, poco distante dalla galleria. Il cielo splende, nessuna nuvola all'orizzonte. Mi alzo, sbuffo, ripercorro la strada al contrario. Il locale aprirà tra qualche ora, ho tutto il tempo per fingermi disoccupato. Trovo una panchina libera e mi siedo di nuovo. Spalanco le braccia, butto indietro la testa, chiudo gli occhi. Il mio piede ha una radice che sfiora il terreno, ma non cerca stabilità. Forse sono solo suggestionato dall'aria ansiosa di un'estate ormai pronta, forse sono i ricordi di un'infanzia che mi ha visto correre sotto questi portici, volte chiare, nidi di rondine ancorati agli angoli dei palazzi.
Riapro gli occhi, l'azzurro del cielo mi abbaglia, li richiudo e, nel riflesso della palpebra ritrovo i suoi, pieni del medesimo azzurro. Sono arrivato in Italia da otto giorni e l'idea di incrociare una donna non mi aveva minimamente sfiorato. Il locale ha impegnato ogni secondo della mia permanenza. Queste strade mi portano in giro ripescando attimi dal passato. Eppure, ieri notte, quel corpo sembrava messo lì apposta per farmi dimenticare Firenze, i vicoli stretti, i gabbiani in picchiata sull'Arno, le corse di un'infanzia lontana. La gente si sgancia da casa per andare al lavoro, mocassini comodi sotto pantaloni larghi, cani al guinzaglio. Mi alzo, prendo il telefono e chiamo Riccardo.
«Ciao Ricky, due minuti e sono da te».
«Ricky? Due minuti? Ma mi prendi per il culo?».
«Ti porto qualcosa da bere?».
«Sono in un fottuto bar che apre tra sei ore e mi chiedi se voglio qualcosa da bere?».
La sua furia scivola dentro a una risata. Non è credibile neanche a se stesso. Nessuno ride così: un salto nel petto come a risucchiare l'aria. Rideva allo stesso modo anche quando eravamo bambini. La nostra storia è popolata di cartoline con la plastica consumata agli angoli. Io in giro per il mondo e lui a Firenze, agiato e ben disposto all'attesa di un invito. È sempre stato lui a raggiungermi, in principio con i genitori, poi con la moglie e, infine, con Elia, il figlio.
Eravamo due ragazzini che consumavano la strada in bicicletta. Feroci spostavamo la ghiaia, scansavamo la polvere. Il nostro unico rifugio era il garage di Vicchio dove sparivamo per ore. Pulivamo le automobili di mio padre, io mi mettevo alla guida e Riccardo sedeva dietro urlando come un forsennato.
Sei mesi fa l'ho chiamato, gli ho detto che volevo aprire uno dei miei locali qui, che avevo bisogno del suo aiuto. Mi ha risposto ridendo e si è messo al lavoro. Ero ad Auckland da oltre un anno, lui era a Firenze da più di trent'anni. Quando ci siamo rivisti l'ho abbracciato come faccio sempre, accogliendo le sue spalle come un porto. Preda di un'ansia insolita mi ha accompagnato fino al limitare di una vetrina priva di insegne, il locale era vuoto, le pareti immacolate. Si è esposto con quel suo petto che vibra forte, meditava già sul da farsi.
«Dammi il tempo, ho tutti i mezzi per incasinare il mondo e risistemarlo in meno di sette giorni» aveva detto risoluto. E così è stato, non ha mai perso di vista l'obiettivo e ha creato quello che avevamo progettato insieme.
Volto l'angolo, la vetrina del Cedar mi viene incontro con il suo bagliore candido. La luce del pomeriggio piove sul vicolo con precisione millimetrica. Riccardo non sbaglia mai. La porta è spalancata, entro e lo trovo accucciato davanti al bancone intento a controllare i led posti lungo tutto il perimetro.
«Credevo che sette giorni ti potessero bastare».
Ogni cosa è al suo posto. I bicchieri sono appesi a testa in giù, i piatti sono accostati al muro, dritti come colonne. Prendo una bottiglia di Bolgheri Sassicaia e la apro con movimenti precisi. Odoro il tappo, verso il vino dentro il calice, me lo porto alla bocca e spingo una goccia contro il palato. Gli passo il suo bicchiere, non lo guarda neppure, piega la testa indietro e se lo svuota in gola.
«La tua è una sorsata senza sfumature. Dovresti fermarti e assaporare».
«La mia bocca non conosce pause così lunghe e comunque ti ricordo che vengo da una nottata difficile».
«Posso capire».
Mi guarda e interagisce con i miei pensieri.
«Bene. Il mistero si rivela: hai scopato. Sei un bastardo, l'onore ti spetterebbe solo se mi avessi invitato. La condivisione una volta era tutto».
«Smettila, non saresti comunque venuto».
«Io vengo per molto meno».
«Tua moglie non è dello stesso avviso».
Riccardo scuote la testa incredulo, fa il giro del bancone e mi raggiunge con il suo bicchiere stretto tra le dita, lo riempie un'altra volta e, mentre se lo svuota in gola senza neppure chiudere la bocca, mi spinge di lato con una gomitata.
«Sei proprio un fottuto libanese, amico mio! Un fottuto inglese! Un fottuto italiano! Sei un fottuto senzatetto e se non fosse per i tuoi dannatissimi soldi ti avrei già sparato in mezzo al cuore».
Ride di nuovo. La nota greve della sua voce si sparge ovunque. Una nota che per un attimo sento di poter raggiungere anch'io. Il corpo è colmo, palpitante, grida ma fingo di non sentirlo.

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