Cinque

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MILA

La luce entra dalla finestra, si stende sulle cosce nude, dentro le lenzuola accartocciate. Ho dormito solo qualche ora, eppure non avverto nessuna stanchezza. Se da mia madre ho compreso l'importanza della dedizione verso gli elementi di una famiglia ben fatta, nelle mie recenti instabilità emotive trovo una totale e irrecuperabile distanza da quella che dovrebbe essere un'unione ben fatta. Sotto le palpebre, dentro ogni intenzione, si agita febbrilmente l'immagine così chiara, così bella, di Dominique. Mi giro su un fianco una volta e poi ancora, come se dovessi scansare il materasso intero da sotto il corpo e cadere a terra, e rompere infinite volte l'involucro che mi trattiene con così tanta forza, da così tanto tempo.
Sono solo cinque giorni, Mila. Cinque giorni che è presente nella tua vita e sei già una superstite.
Potrei dormire qualche altro minuto, respirare il fresco di questa stanza dal soffitto incredibilmente alto, dalle mura bianche, immacolate. È presto, nessuno mi chiama, nessuno mi cerca, potrei realmente fermarmi qui e fingere di non sentire l'urgenza di scappare giù in strada, di correre da lui. Potrei voltare le spalle ai desideri e soffocare i lamenti, potrei, ma non ce la faccio.
Mi alzo, entro in bagno, spazzolo i capelli, li lego con un elastico rosso, scavo con un dito dentro le occhiaie. Solo dopo un'altra attenta valutazione del colore della mia pelle ancora così ostinatamente chiara lascio la stanza e vado in cucina. La casa è silenziosa. Sara dorme, mi muovo lentamente, non voglio svegliarla, ha passato gran parte della notte davanti al suo Ipad. L'euforia per la festa di mia madre l'ha resa insonne.
Mangio alcuni biscotti mentre il caffè sale nella moca. Mi affaccio alla finestra, il cielo è grigio. Tra qualche ora pioverà e io sarò con Dominique. Del tempo e di tutto il resto mi interessa veramente poco.
Mando giù il caffè e mi dirigo in camera. Indosso una gonna di pelle, corta, leggermente svasata, una maglia a righe bianche e nere, le scarpe con la fascia di cuoio attorno alla caviglia. Mi trucco pochissimo, devo assolutamente mascherare la stanchezza, ma non voglio esagerare. Lo specchio mi restituisce un'immagine nuova, non ho più l'aria sciupata di prima, l'umore migliora davanti alla sicurezza della pelle distesa. Afferro l'impermeabile e la borsa dove ho sistemato l'agenda, tutti i documenti presi in ufficio. Sono in anticipo e allora torno in cucina, mi siedo sul divano premendo i palmi sulle ginocchia nude. Il cellulare vibra, sobbalzo malamente dentro i cuscini, il display mi restituisce lo sguardo di mia madre e allora le mani smettono di vagare in aria confusamente.
«Mamma?».
«Volevo scusarmi per ieri sera, sono troppo curiosa e non riesco mai a limitare le domande. Anche tuo padre mi ha detto che ho sbagliato».
«Lascia stare».
«No, ascolta, sei libera di portare chi desideri alla festa».
«E se venissi da sola?».
Il suo silenzio è fastidioso, ma non voglio discutere un'altra volta.
«Dai. Ci penso».
«Grazie. Lo sai che ci tengo».
«Sì, mamma. Lo so».
«Possiamo sentirci più tardi?».
«Ti chiamo io domani, va bene?».
Fa un'altra pausa in cui cerca di dissimulare il dissenso.
«Va bene, allora passa una buona giornata».
«Farò il possibile».
Riattacco sbuffando. Sara è sull'uscio dalla camera, mi fissa da lontano.
«Ma quanto sei bella? Non ti vergogni?».
Si avvicina e mi bacia su una guancia mentre si strofina gli occhi pigramente.
«Passa a prendermi l'emiro».
«Si è attrezzato con una bicicletta per dare meno nell'occhio?».
«Non credo».
Mi alzo, raggiungo la cucina e le verso una tazza di caffè. Si appoggia al tavolo con i gomiti, mentre con il mento mi indica l'Ipad che ha depositato a pochi centimetri dalla mia mano.
«Ci hai dormito assieme?».
«Certo, i sogni sono più interessanti su Google».
«Trovato qualcosa?».
«Accendilo e guarda i link che ho salvato».
Ho tempo per consultare ogni pagina. Castelli, cantine, casali, c'è un po' di tutto e tutto è estremamente raffinato. Non sarà facile, mia madre è una donna elegante, mio padre ha altre necessità, adora il vino, la campagna, la terra in cui è cresciuto. Sfoglio lentamente ogni fotografia: strade sterrate, vigneti, la macchia liquida di grandi piscine azzurre, ogni elemento restituisce intenzioni. Poi, d'improvviso, lo sguardo segue un'immagine più ampia, composta da colli abbagliati dal sole dove il verde abbacinante dei campi si fa sporcare da un albero maestoso che oscura di poco le mura dei locali posti più sotto. Leggo la didascalia e il cuore si lascia imbrigliare dalla sorpresa: cedro libanese.
Controllo ogni pagina con maggiore interesse. Una vecchia abbazia, ormai villa, una nuovissima cantina, camere, appartamenti. Sara si avvicina e sbircia insieme a me.
«Questo mi piace molto. La cucina è ottima e poi ci sono tutti i vini che piacciono tanto a tuo padre» ,afferma risoluta.
«E a Dominique».
La mia voce esce come un pensiero senza guida. Me ne accorgo all'ultimo momento e resto col fiato a mezz'aria.
«Ho capito bene?», sussurra piano.
Mi sento improvvisamente contenta e disorientata. Sto costringendo uno sconosciuto ad assumere una fisionomia che forse neppure gli appartiene e lo faccio in virtù di qualche sentimento che mi preme addosso e che, allo stesso tempo, considero improbabile. Eppure questa nuova sensazione mi fa sentire talmente sicura che anche una scelta di questo tipo mi appare possibile.
«L'anniversario dei miei genitori rientra nei miei diciotto giorni».
Sara ride soddisfatta.
«Allora devo comprarmi un vestito nuovo! Se ti fai accompagnare da Dominique tutte le donne presenti in sala perderanno di vista i rispettivi mariti e allora sì che avrò da fare!».
Il campanello suona, Sara raggiunge la finestra e guarda giù.
«Eccolo, il nostro eroe».
Mi alzo, la saluto con un bacio e scendo di corsa le scale. Ho già aspettato troppo.

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