Tre

23 4 2
                                    

MILA

Un lenzuolo bianco, la finestra che incornicia il cielo azzurro, lo stomaco che reclama attenzioni. Sento suonare un telefono, uno squillo nuovo che non riconosco, lo cerco con gli occhi, muovo passi rapidi fino alla scrivania, sollevo la cornetta senza esitazioni. Dalla reception una voce annuncia l'arrivo di Sara, ordino di farla salire, come se questo posto fosse ormai cosa mia e il tono che mi esce è così perentorio che fatico a starmi a sentire. Mi stringo addosso l'accappatoio e mi guardo attorno frastornata dalla cura di ogni elemento, dall'eleganza di ogni oggetto, c'è un'eccitazione delle cose, penso, un sentimento che si muove anche dentro gli specchi.
Quando le porte dell'ascensore le permettono di varcare la soglia della stanza, Sara mi guarda appena, è sovraccarica di stupore, butta a terra la borsa e, con un dito puntato alla gola, mi spinge sul divano.
«Tu hai venduto l'anima al diavolo, ammettilo!».
Vaga per la stanza, la seguo perché non so cosa le passi per la testa. Percorre il perimetro dell'area, analizza ogni dettaglio, sfiora ogni superficie. Si ferma davanti al letto, libera un sorriso e mi guarda.
«Ricordami di dire alla stronzetta della reception che queste lenzuola devono andare al macero».
Fa il giro al contrario, si sistema a pochi passi dal divano, ma senza una finalità precisa, vorrei darle delle risposte ma non so cosa dire, sono concentrata sul tempo che mi rimane e allora afferro il borsone, mi accerto che non manchi nulla. Intimo, trucco, vestiti puliti, c'è tutto. Infilo un paio di jeans stretti e una blusa color caramello. Il telefono della camera suona di nuovo, una voce femminile, mi chiede svogliatamente se può mandarmi la colazione in camera, la fame mi costringe ad accettare.
«Sarà anche stronza ma ci manda del cibo. Siediti, dai».
Sara finalmente si avvicina, mi bacia, poi si mette seduta e aspetta che io finisca di sistemarmi i capelli. Qualche istante dopo un cameriere attraversa la soglia, spinge un carrellino rumoroso, saluta a denti stretti, ma non dimentica mai di sorridere. Apparecchia per due. Quando se ne va mi siedo al tavolo e osservo il vassoio carico di frutta, brocche fumanti e cornetti. Afferro un biglietto appoggiato al centro del piatto, lo apro.

Il sesso mette fame.
Vi auguro una buona giornata.
Dom

Sara me lo strappa di mano, legge e fa un gridolino di approvazione.
«Senti, a quando il matrimonio?».
Le briciole si perdono sulle sue labbra, vorrei fermarmi, contarle una ad una e prendermi il tempo necessario per trovare il modo per dirle tutto, ma non c'è uno spazio temporale adeguato per cambiare il senso di quello che sto facendo.
«Solo diciotto giorni. Oggi sedici, a dire il vero».
Sgrana gli occhi, appoggia il tovagliolo sulle ginocchia, le labbra si spengono dentro una parentesi storta.
«Cioè, fammi capire... tra sedici giorni devo fare la damigella? E il vestito? Come diavolo faccio a organizzarmi?».
«Tranquilla, nessun vestito e nessun matrimonio. Tra sedici giorni Dom parte e non ci rivedremo più».
«Oddio».
«Stai tranquilla, so quello che faccio».
«Non sono così convinta. Tu, Mila...».
«Non dire niente, ti prego. Mi ha lasciata libera di scegliere. Tra due settimane riparte e basta. Questi sono i miei diciotto giorni con lui e ho intenzione di viverli tutti allo stesso modo».
«Ci hai pensato bene?».
No, ha ragione, non ci ho pensato affatto. Non come di solito penserei a tutto, prendendomi gli spazi per confrontare passato e presente. Eppure mi muove un istinto che non ho mai avuto prima.
«Non è solo del suo piacere che stiamo parlando, ma anche del mio. Sono io che lo voglio».
Si alza, mi prende il viso tra le mani e mi bacia.
«Se è quello che vuoi, allora va bene».
Si stacca, mi guarda un'altra volta e ride.
«Però adesso ti trucco perché sulle occhiaie c'è scritto scopami ancora e non mi pare una cosa da far leggere al povero Marcolino».

DOMINIQUE

La strada mi scivola sotto le scarpe. Cammino mentre il sole si alza tagliando le ombre a metà. Il blu della notte continua a rincorrermi. È erotismo puro, mi fa impazzire, il suo modo di fare, quei silenzi accompagnati da occhi che parlano troppo. Mi domina e poi è esattamente il contrario, si piega, si lascia addomesticare.
I limiti sono una definizione che amministro da sempre. Ogni cosa che provoca e genera piacere termina con una decisione perentoria. Il mio modo di tradire le aspettative mi permette di vivere in posti unici e conoscere persone che non mi deluderanno mai.
Entro nel locale dalla porta di servizio, il personale arriverà tra qualche ora, devo sfruttare questo tempo per studiare i documenti della Giglio, i dati di cui sono entrato in possesso sono molti, voglio fare chiarezza e per farlo non mi resta che guardare con i miei occhi, sentire con le mie orecchie. Smisto i fogli, uno ad uno, lungo tutto il bancone, inizio a delineare un contatto tra la storia di mio padre e la quotidianità di tutta questa gente che dipende ancora da lui, anche se è morto, anche se ormai non ha più niente da perdere. Perdere. Alla fine di questa indistinta linea di carta intravedo la sconfitta, poco per volta, realizzo il problema, la raffinata scelta imprenditoriale di un uomo che ha investito il proprio tempo in tutto quello che poteva dargli potere. Mio padre era l'illusionista che tradiva i desideri, lasciava fare e poi si prendeva i suoi spazi, tornava a Beirut e spariva.

OUTSIDEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora