40. Davanti allo specchio

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Da parecchi minuti Michelangelo Martini si trovava immobile davanti allo specchio della sua camera e tutto ciò che era in grado di sentire era il ritmo calmo e regolare del suo stesso respiro.

Era sera e i suoi genitori stavano guardando la TV in soggiorno, mentre Andrea già dormiva.

Il castano si osservò attentamente da capo a piedi e lasciò che i pensieri attraversassero la sua mente e facessero scattare qualcosa in lui.

Ripensò a ciò che era accaduto nella sua vita in quelle ultime settimane e si rese conto di aver tenuto dentro di sé troppe emozioni e troppi segreti.

Avrebbe voluto tornare indietro nel tempo e parlare subito a Tommaso e Federico della danza e di Ginevra. Avrebbe voluto essere capace di stare accanto alla sua ragazza e non deluderla mai. Avrebbe voluto non arrabbiarsi con Zeno proprio il giorno prima che lui facesse un incidente stradale e avrebbe voluto non essere fuggito come un codardo, quando era andato a trovarlo in ospedale. Infine avrebbe voluto non essere così debole da stringere un patto con Patrick.

A Michelangelo sembrava che in quell'ultimo periodo il numero dei suoi errori fosse aumentato esponenzialmente.

Si sentiva in gabbia. Aveva la sensazione di non essere libero di agire come voleva e questa cosa lo soffocava. Si sentiva un fallimento, mai all'altezza delle aspettative degli altri e sempre in lotta con se stesso.
Non voleva essere così com'era; lui odiava il suo carattere.

A volte si chiedeva come riuscissero a sopportarlo quelli che gli stavano accanto. Lui non era nessuno. Lui era capace solo di sbagliare e di deludere gli altri.

Una lacrima scese lungo la sua guancia, ma la sua espressione non mutò. Solo quando decise di ascoltare un po' di musica classica, direttamente dal suo cellulare, altre lacrime fecero compagnia alla prima e le emozioni finalmente scaturirono, come un fiume in piena.

Michelangelo aveva la sensazione di avere il petto spaccato a metà e il cuore ridotto in briciole. La testa gli scoppiava e la sua gola era in fiamme.

Non avrebbe saputo dire se si fosse prima lasciato andare al pianto o se avesse prima iniziato a danzare.

In camera sua non c'era tanto spazio, ma in fondo non gliene serviva. Gli bastava muovere gli arti, il busto e la testa e immergersi in quella melodia malinconica che gli scavava dentro e trovava emozioni a lungo messe a tacere: rabbia, tristezza, paura, amarezza, gelosia e tanto altro, tutto ciò che era rimasto bloccato nel suo cuore e che ora chiedeva di prendere una boccata d'aria.

Michelangelo indossava dei calzini bianchi e una tuta grigia. Ballò davanti allo specchio, nei pochi metri quadrati della sua camera.

Non era consapevole di come si stava muovendo, tanto era assorbito dalle emozioni che provava. Il suo corpo agiva da solo, passo dopo passo, fendendo l'aria, a volte più veloce, a volte più lento, a volte seguendo le regole della danza classica, a volte inventando, in un modo tutto suo.

Michelangelo non avrebbe mai creduto che la danza potesse essere per lui come una via di fuga, un modo per dare vita alla propria interiorità, e fu solo in quel momento che capì di avere appena trovato un tesoro.

Anche se aveva smesso di frequentare le lezioni di danza, non avrebbe mai rinunciato al linguaggio che il suo cuore aveva appena imparato a comprendere.

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La mattina seguente Michelangelo incontrò i suoi due migliori amici nel posto dove si erano dati appuntamento anche la prima volta che avevano marinato.

Arrivò in anticipo e si sedette su una panchina ad aspettare, controllando prima di non essere visto da nessuno di sua conoscenza. Tommaso e Federico lo raggiunsero un paio di minuti dopo.

"Temevo che non saresti venuto" esclamò il rosso appena lo vide.

"E invece sono arrivato addirittura per primo" ribatté soddisfatto il castano.

I tre amici si scambiarono numerose pacche sulle spalle, poi si diressero verso la fermata degli autobus.

Era una giornata nuvolosa. Per questo avevano deciso di non recarsi al mare, come invece avevano fatto la prima volta, e avevano optato per una zona periferica della loro città.

Lì un tempo abitava Federico insieme alla sua famiglia, prima che i suoi genitori divorziassero. Era vicina alla zona industriale e per questo era abbastanza degradata. Michelangelo ricordò che da quelle parti si trovava il manicomio abbandonato dov'era stato con Zeno e Ginevra.

Da allora sembrava passata una vita intera.

"Qui è dove ho preso in mano per la prima volta un pallone da basket" raccontò Federico ai suoi amici, quando arrivarono davanti a un campetto da pallacanestro.

Un'alta rete lo circondava, conferendogli l'aspetto di un posto per detenuti, complice anche il fatto che in quel momento non ci fosse nessuno a giocare.

"Che ne dite se facciamo due tiri?" propose il corvino sorridendo e indicando un pallone dimenticato da qualcuno in un angolo.

Gli altri due furono entusiasti dell'idea, ma anche se non lo fossero stati avrebbero accettato comunque, sapendo quanto il basket rendesse felice Federico.

Giocarono per un'oretta, passandosi la palla e allenandosi a tirare a canestro. Né Michelangelo né Tommaso erano ragazzi particolarmente sportivi, al contrario di Federico. Per questo faticarono tantissimo e sudarono il doppio rispetto al loro amico.

Ciononostante si divertirono molto, risero e si presero in giro. Per la prima volta da tanto tempo nessuno di loro pensò a nulla, se non al presente. Si trovavano insieme e giocavano come dei bambini spensierati, ignari di cosa potesse riservare loro il futuro.

Il pallone rimbalzava ritmicamente per terra e ogni tanto urtava il tabellone o la rete metallica di uno dei due canestri. I tre amici correvano e stavano bene insieme. La scuola e i loro compagni di classe, che in quel momento si trovavano a lezione, erano ormai un ricordo lontano.

"Basta, vi prego! Non ho più fiato" esclamò a un certo punto Michelangelo, piegando la schiena e poggiando le mani sulle ginocchia, nel tentativo di riprendersi.

"Sei scarso" lo prese in giro Federico, facendo l'ultimo tiro a canestro e riuscendoci alla perfezione. Tommaso applaudì teatralmente e fece scoppiare a ridere gli altri due.

Passarono il resto della mattinata a passeggiare per quel quartiere, che era praticamente deserto, chiacchierando e divertendosi molto.

Solo quando arrivarono davanti alla casa dove Federico aveva vissuto da piccolo i loro sorrisi si spensero.
Restarono per qualche minuto a osservare l'abitazione su due piani, circondata da un giardino che era tenuto molto meglio di tanti altri che avevano visto lungo la strada.

Nessuno disse niente, finché fu Federico stesso a rompere il silenzio e a mormorare: "Questo è il luogo dove sono stato bambino. Però, sapete, ormai sento di non appartenere più a quella vita".

Michelangelo e Tommaso lo guardarono a lungo, mentre il corvino continuava a tenere gli occhi puntati sulla casa. Sebbene le sue parole sembrassero sincere, il modo in cui osservava l'edificio rivelava quanta fosse in realtà la nostalgia che provava per quei tempi migliori.

"Vieni, andiamo a mangiare" esclamò a un certo punto Tommaso, posando delicatamente una mano sulla spalla del ragazzo e invitandolo con un cenno del capo a seguirlo.

Il corvino sorrise. Poi tutti e tre si incamminarono nella direzione da cui erano venuti e si lasciarono alle spalle la casa dove Federico era stato bambino. 

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