45. Lacrime

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Quella notte Michelangelo riuscì ad addormentarsi soltanto alle quattro del mattino, per sfinimento. La sua testa brulicava di pensieri e visualizzava ogni momento della relazione con Ginevra sotto una nuova luce.

Leggere quella lettera era stato come ricevere una pugnalata al cuore e le lacrime non avevano aspettato a scendere quando infine il ragazzo aveva posato il foglio di carta sul comodino e aveva spento l'abat-jour. Aveva pianto silenziosamente, per non far preoccupare i suoi genitori, e aveva avuto la sensazione che il suo petto fosse sul punto di esplodere.

Le emozioni che la conoscenza della verità aveva portato in lui erano troppe da sopportare in una notte sola. Sapere che Ginevra, la ragazza di cui si era innamorato fin dalle prime volte che si erano visti, lo aveva usato, proprio come un giocattolo, al fine di riconquistare Zeno era qualcosa di così lontano dalla sua immaginazione che se non ne avesse avuto la prova scritta avrebbe creduto di averlo sognato.

Era stato come una marionetta nelle sue mani e questo Michelangelo non lo riusciva a sopportare. Il fatto che poi Ginevra avesse davvero iniziato ad amarlo passò in secondo piano: il modo in cui la loro relazione era iniziata era intessuto di falsità, quindi forse era meglio che non continuasse nemmeno.

Il giorno seguente le avrebbe parlato. Sarebbe stato doloroso guardarla in faccia, ora che conosceva la verità, ma era l'unica cosa da fare.

In realtà avrebbe di gran lunga preferito restare per sempre nel suo letto, sotto le coperte, a piangere e nascondersi dal mondo, ma doveva andare a scuola e poi, nel pomeriggio, vedere Ginevra.

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"Michi, è tutto a posto?" gli domandò Tommaso la mattina seguente, prima che suonasse la campanella dell'inizio delle lezioni. Il castano era pallido e aveva le occhiaie.

"Sì, io... ho dormito male stanotte" disse Michelangelo. In effetti non era una bugia: aveva proprio dormito male. "Sentite, vi va di uscire oggi sul tardo pomeriggio?".

"Certo! È sabato, quindi nessuno ha niente da fare" acconsentì Federico; anche Tommaso fu d'accordo.

I due, però, si scambiarono un'occhiata, preoccupati. Sebbene fossero abituati ai silenzi del loro migliore amico, che era sempre stato il più taciturno dei tre, si erano accorti del fatto che quella mattina era diverso dal solito. Per questo intuirono che gli fosse successo qualcosa e non si tirarono indietro davanti alla sua proposta di uscire, così da avere la possibilità di avere spiegazioni da lui stesso.

Proprio in quel momento la campanella suonò e i ragazzi si accomodarono ai loro posti, aspettando l'arrivo dell'insegnante della prima ora.

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Michelangelo continuava a pensare agli eventi della sera prima, mentre con il palmo della mano appoggiato su una guancia fissava la lavagna davanti a sé. Non si scosse nemmeno quando l'insegnante di fisica gli posò sul banco la verifica corretta.

Le diede solo una veloce occhiata. Aveva presto otto e mezzo.

Nemmeno un accenno di sorriso gli illuminò il volto. Aver ricominciato a impegnarsi nello studio aveva dato i suoi frutti, ma in Michelangelo non c'era traccia della soddisfazione che un tempo provava davanti a quei numeri. In quel momento nessun voto era in grado di tirarlo su di morale.

Le cose precipitarono ulteriormente quando, tendendo l'orecchio, sentì Patrick, dall'altra parte dell'aula, chiedere al suo compagno di banco: "Quanto ha preso Martini?".

"Otto e mezzo. Tu che hai preso?".

"Otto".

Il castano non girò neanche la testa, ma avrebbe giurato di avere gli occhi del biondo puntati addosso. Non aveva rispettato il loro accordo, dato che aveva preso più di lui, quindi era assai probabile che egli si sarebbe vendicato.

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