26 - Aria

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Noah era zuppo fino al midollo.

A niente era servita la mantella di pelle che si era gettato addosso, né tantomeno il cappuccio che si era alzato sulla testa per proteggersi. Ogni sobbalzo di Arya glielo faceva scivolare via, scoprendo il suo viso alla pioggia battente, e lui si era stancato di rimetterselo a posto già dopo la terza volta.

Nonostante l'intemperia, Noah aveva cavalcato per ore, la mente libera da ogni pensiero come solo gli accadeva quando si trovava in sella al suo cavallo: l'odore penetrante del bosco e della terra bagnata, il verde rigoglioso e l'aria sferzante erano riusciti a rischiarare la sua mente, come se il sole che quel giorno aveva deciso di eclissarsi dietro delle nuvole grigie per lasciare il suo corpo al gelo avesse deciso di riscaldare almeno l'antro freddo dei suoi pensieri.

Era stato un pomeriggio di respiri a pieni polmoni, di aria pulita che aveva rinvigorito il suo animo. Un pomeriggio libero che lo aveva allontanato da ogni cosa – Livia, Iris, l'espressione ferita di sua madre –, che gli aveva permesso di spogliarsi degli abiti che in quell'ultima settimana erano diventati ancora più pesanti del solito, come se ogni mattina fosse costretto a coprirsi con un'armatura di ferro.

Sei fatto di vetro, ti serve un'armatura per proteggere il tuo fragile corpo.

Ma se fosse stato il peso della stessa armatura protettiva a farlo sbriciolare in pezzi? Quanto peso poteva sopportare il vetro senza incrinarsi?

Noah aveva cavalcato senza destinazione, come sempre faceva, rassicurato però dal paesaggio che conosceva a memoria. Aveva cavalcato come sé stesso: un ragazzo di diciotto anni, nessun titolo, nessun futuro, nessun destino.

Ma poi la luce aveva iniziato a scemare, e Noah aveva girato Arya per tornare sui passi mangiati con foga, galoppando veloce per battere il tempo.

E, un pezzo alla volta, l'armatura si era riappoggiata e ristretta sul suo corpo, fino a quando la reggia ricomparve davanti ai suoi occhi e tutto quello di cui si era liberato nel bosco ripiombò a pesargli sullo sterno.

Il vento cambiò direzione, e Noah si ritrovò senz'aria.

Diminuì il trottare del suo cavallo fino a fermarsi nelle vicinanze delle stalle. Smontò da Arya con un salto, gli stivali affondarono in una pozza di fango che schizzò i suoi abiti e accompagnò passo passo il suo cavallo fino all'entrata.

Ancora prima di arrivarvi, notò Filippo appoggiato all'entrata al riparo dalla pioggia. Il ragazzo non si affrettò verso di lui, ma Noah non se ne sorprese. Gli aveva ribadito più volte che di Arya se ne sarebbe sempre occupato da solo: era stato il suo primo destriero, la sua prima compagna di avventure. Era da otto anni che passavano insieme le loro giornate – anche quando non riusciva ad andare nei boschi, Noah trovava sempre tempo per andare a occuparsi di lei – e riteneva fondamentale che fossero sue le mani da cui traeva conforto e cure.

«Cavalcata confortevole e rilassante?» gli domandò Filippo quando lo sorpassò per entrare.

Noah sorrise, riconoscendo l'ironia dietro la sua domanda. «Come sempre.»

Filippo scosse la testa, e Noah fece entrare Arya nel suo recinto. Raccolse il secchio per riempirlo con acqua fresca, che poi travasò nel suo abbeveratoio. Si fece così da parte per darle il tempo di rifocillarsi e sistemarsi.

«Se il tuo scopo è quello di prenderti una febbre da cavallo in modo da avere una scusa per non uscire nelle tue stanze, credo proprio che tu sia sulla strada giusta.»

Noah gli lanciò un'occhiata divertita. «C'è qualcuno in questo posto che non è conoscenza della mia avversione per il mio matrimonio?»

Filippo si esibì in una smorfia. «Ma per favore. Ti conosco da quando ancora ciucciavi latte.» Filippo, più grande di lui di due anni, era cresciuto lì. Suo padre si era occupato delle stalle prima di lui. «Senza contare di quell'estate in cui hai deciso di dare avvio a quella petizione contro i matrimoni combinati e sei andato per una settimana intera in giro a chiedere a tutti di firmarla.»

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