32 - Foschia

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Il grigiore del tempo l'aveva presa nella sua morsa.

Quella mattina, Iris si era svegliata – o forse era meglio dire si era alzata, visto che non aveva trovato conforto nel sonno nemmeno per un agognato istante –, grigia e spenta quanto l'atmosfera che dall'esterno si propagava nella reggia.

Non sapeva dove avesse trovato le forze per abbandonare il suo letto, lavarsi e vestirsi per una fredda giornata senza sole. Sapeva solo di aver compiuto quei gesti senza vera consapevolezza, come se qualcuno avesse tirato dei fili allacciati saldamente al suo corpo per farle eseguire i primari compiti di cura. I suoi arti si erano quindi mossi, ma la sua mente era stata un terrificante vuoto, nessuna presa di coscienza a renderla viva.

La sera precedente, aveva promesso a Victoria che si sarebbero trovate per colazione, prima dell'inizio delle sue lezioni con il precettore. Iris ricordava di avere annuito alla sua proposta colma di preoccupazione, e sapeva che non avrebbe potuto scamparne.

E a un certo punto, l'entità che quella mattina aveva preso comando del suo corpo doveva avere deciso che era meglio farle affrontare quell'incontro, per non permettere a Victoria di andarla a cercare lì nella sua stanza, per non permetterle di capire la vera estensione del suo sconforto.

Così Iris si era alzata, si era lavata, si era vestita e aveva raggiunto Victoria alla sala delle dame, dove ogni mattina venivano accolte dame e nobildonne.

Ma quello che l'entità che aveva preso possesso del suo corpo non aveva calcolato, era che Victoria non poteva essere ingannata: Iris poteva anche rispondere normalmente ai comandi più semplici – siediti, versati una tazza di tè, spalma la marmellata su quella fetta di pane e addentala –, ma l'amica che la conosceva meglio di quanto Iris si conosceva ci aveva messo poco meno di un minuto per capire che la sua mente non fosse presente a quella colazione quanto il suo corpo.

«Iris, mi vuoi dire che cos'hai?» le chiese Victoria, preoccupata, per la terza volta.

Fuori non pioveva, né nevicava, ma le nuvole erano cariche di gocce o fiocchi. Un'atmosfera tetra, cinerea. La neve fresca che aveva ricoperto di uno spesso strato i giardini era grigia, non bianca. Gli alberi spogli erano lugubri, i loro rami scheletrici. I sempreverdi erano spenti, più neri che verdi.

E dentro la sua testa si rifletteva tutta quell'area funebre.

«Iris!» la richiamò con più decisione Victoria.

L'entità le fece distogliere lo sguardo dalle finestre e glielo fece portare su Victoria, ma non riuscì a raggiungere il suo cervello per obbligarlo a dare risposta.

La sala era vuota, a parte loro due. La sala era silenziosa, a parte per lo scoppiettio del fuoco del caminetto. Era ancora molto presto.

«Mi stai facendo preoccupare» insistette Victoria. E Iris riuscì a vedere la veridicità di quelle parole sul suo volto. «Forse dovresti andare da Folksir.»

Quel nome, per qualche motivo, riuscì a risvegliarla dal suo desolante torpore. «Folksir?»

Victoria annuì. «Il medico di corte» le spiegò, facendo risalire la sua domanda distratta all'inconsapevolezza su chi fosse. «Ti ricordi l'uomo che abbiamo visto a Huron, alla casa della divinità celeste?»

Ma Iris sapeva bene chi fosse Folksir. L'uomo che l'aveva incuriosita, a cui non era riuscita ad associare l'immagine né di consigliere, né di medico. L'uomo che aveva poi scoperto essere un astrologo, un'informazione che l'aveva ancora più intrigata.

Colui che aveva spiegato a Noah la teoria sui déjà vu.

Una persona ha un déjà vu nel momento in cui è in linea con il proprio destino.

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