XXXV Capitolo _ Memorie violente

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1979, città di Grado.

Tamara Blasutig arrancava per la stanza bollente, come una bestia ferita chiusa in trappola. La mano sinistra accarezzava le pareti buie, e così la destra faceva lo stesso con il ventre gravido. Il caldo era davvero infernale. La canicola estiva filtrava insieme alla poca luce attraverso le persiane serrate, e Tamara sudava e si lamentava. Partorire d'estate non è certo l'ideale; specie per una sedicenne spaventata.

«Papà... – supplicava la ragazza – papà, ti prego... fa male, fa male...»

Ma Ezio Blasutig era troppo impegnato a completare l'allestimento della stanza operatoria. Sarebbe stato pronto; questa volta non ci sarebbero stati errori o complicazioni che non avrebbero potuto superare insieme.

Una volta allestito il lettino e i cuscini, l'uomo aveva raggiunto la figlia.

«Vieni tesoro, da questa parte.»

Ma la ragazza ormai pensava solo a scappare: «Non voglio papà, fa troppo male.»

«Non ti preoccupare, tesoro, ci sono qui io.»

La chiamava "tesoro", ma la sua voce era tutto fuorché dolce. Ezio era ruvido nei modi quanto nell'aspetto. Era alto e con le spalle larghe, ma curvo nonostante i cinquant'anni appena compiuti; aveva tutti i capelli bianchi, corti e taglienti quasi fossero fatti di sale, e la pelle squamata dei vecchi pescatori.

Quando aveva preso la mano della figlia, il padre indossava già i guanti in lattice. Aveva accompagnato la ragazza nella stanza allestita; e appena era entrata, Tamara aveva sentito un sussulto che non era dovuto alle doglie: sembrava la scena di un crimine prima che si compisse il reato. Le pareti e il pavimento erano rivestiti di teli di plastica e cellophane. Al centro c'era un lettino ospedaliero di seconda mano, ma ancora solido e ben sterilizzato, con bianche lenzuola e morbidi cuscini ad attendere la partoriente; accanto, invece, un carrello, con forbici, pinze ombelicali, garze, materiali di sutura, e altri strumenti incomprensibili e terrificanti per la giovane.

Ezio l'aveva fatta adagiare, avvolgendole lo sfigmomanometro intorno al braccio. Aveva inforcato lo stetoscopio e aveva iniziato a monitorare. Muoveva la mano sul petto della figlia con la presuntuosa certezza che lo contraddistingueva quando s'intestardiva su qualcosa.

Il battito e la pressione della madre erano buoni; leggermente alti ma nella norma, secondo quanto indicato dai manuali che aveva studiato. Ora però toccava al feto. Ezio aveva comprato apposta un Doppler fetale; gli avevano assicurato che avrebbe dato risultati più precisi. Ma lì erano iniziate le complicazioni... Innanzitutto il gel sembrava troppo denso, ed Ezio non era certo della quantità utile per la lettura. Inoltre i valori sul dispositivo erano drasticamente altalenanti, variando da 100 bpm a 160 in pochi secondi; evidentemente l'apparecchio captava rumori di fondo indesiderati.

«'Sto pezzo di ferraglia – aveva sibilato Ezio scagliando il dispositivo a terra.

Il gesto iroso non aveva certo tranquillizzato la ragazza, che si caricava di nuova apprensione.

«Che succede papà? Qualcosa non va? Dimmelo.»

«Adesso fa' silenzio, tesoro.»

E con quel grezzo richiamo, Ezio si era seduto vicino al ventre e aveva cominciato a tastare. La parte dura doveva essere la schiena del bimbo; se lo ripeteva, cercando di acquietare i dubbi: il fatto era che "tutto" gli sembrava duro al tatto. L'uomo quindi aveva afferrato il Pinard Horn, e posizionandolo dove avrebbe dovuto trovarsi il cuore del feto si era messo ad ascoltare e contare con l'occhio fisso sull'orologio da polso. Lo faceva schioccando leggermente la lingua, un tic che Tamara tollerava poco, e in quel momento, per qualche strana ragione, ancor meno. Ezio aveva infine levato il corno: 53 battiti in 30 secondi; moltiplicato per due... 106 bpm. Il valore registrato in sé non era grave, ma era indice che il bimbo era bradicardico.

Il sentore del mostro _ I figli di AitaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora