Capitolo 47

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-Mattheo

Non appena la porta della stanza venne aperta, lo sguardo di Pansy si illuminò. Non ebbi neanche bisogno di girarmi per sapere chi era appena arrivata. 

Strinsi la sigaretta fra indice e medio, fino a spezzarla. Buttai i rimasugli fuori dalla finestra, consapevole che, se qualcuno dei professori se ne fosse accorto, avrebbe sicuramente incolpato me o i miei amici. Ma non me ne fregava un cazzo.

Potevano anche buttarmi fuori. Non avevo nulla da perdere.
Sinceramente, non vedevo l'ora di terminare l'ultimo anno e lasciarmi tutto alle spalle. 

Non avrei mai potuto dimenticare il mio passato, ma più stavo lì dentro, più i ricordi di me bambino riaffioravano nella mia testa, soprattutto da quando lei mi era così vicina. 

Volevo assaporare quella bramata sensazione che si prova quando più ci si allontana da un posto, più si riesce a respirare a pieni polmoni. Senza percepire il respiro bloccarsi nella gabbia toracica. 

Quando voltai lo sguardo, incrociai subito i suoi occhi cerulei, inondati di rimorso e tristezza.

Aveva provato a spiegarmi chissà cosa, ma non ne avevo proprio voluto saperne di ascoltarla. Neanche per un solo attimo.
La rabbia aveva agito al posto mio.

Come d'abitudine, d'altronde. 

Nonostante avessi visto di persona il modo in cui, fitti fitti, parlavano e le loro labbra quasi incollate, mi sentivo in colpa di averla trattata così male. 

Non ero riuscito a scorgere il viso di Juliette, dal momento che vedevo solamente le sue spalle e quella testa di cazzo di Diggory, perciò non ero sicuro che stesse veramente apprezzando quello che stava succedendo fra di loro.

Era pur sempre la mia Juliette.
Lei non tradiva. Non feriva.
Lei non era Astoria.

D'altro canto, qualunque fosse la verità, mi ero sentito dimenticato.
Si era spostata da lui, era vero. Ma, poi, quando il coglione l'aveva baciata davanti i miei occhi, mi ero sentito perduto. Completamente perduto.

Abbassai lo sguardo sulle mie nocche, sporche di sangue, ormai secco e di colore scuro.

Quando ero arrivato in quella stanza, vi era soltanto Daphne. Pansy era insieme a Draco e Blaise, giù alla sala comune. Perciò, nonostante fosse la sorella della mia ex, decisi comunque di rimanere, aspettando l'arrivo degli altri.

Si accorse subito delle mie mani, ma non fece domande e, di rimando, rimasi in silenzio.

Non piangevo mai. Non avevo più pianto dal momento in cui mio padre mi intimò di non farlo. Ma, in quel momento più di altri, il bisogno di lasciarmi andare pungeva come un ago affilato, dietro le mie palpebre.

'Piangere è da deboli. Tu sei debole, figliolo?'

Non mi aveva neanche dato il tempo di rispondere, quel figlio di puttana. 
Strinsi i pugni, affondando le unghie nella carne.
Trattenni ancora le lacrime. Il dolore che mi affliggeva il petto. Le urla.

Continuavo a racchiudere tutto dentro di me, fin quando, come un vulcano, non sarei scoppiato. La lava erano le parole, le frasi, gli avvenimenti, i tradimenti, i graffi, le cicatrici, le violenze subite da piccolo. Ciò che mi caratterizzava, insomma. O, meglio, che aveva caratterizzato la mia vita. Il cono vulcanico, invece, ero io. Il mio corpo malandato. 

Adesso, avevo bisogno solamente di lei. Era l'unica a saper colmare l'uragano che viveva dentro di me, mentre io provavo ad uccidere i suoi demoni, che non erano altro se non ricordi di incubi passati, di cui anch'io facevo parte.

Even in the scars | Mattheo Riddle    Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora