Capitolo 8

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Andare a scuola alle otto di mattina dovrebbe essere illegale. Non credo che ci sia qualcosa di peggiore di svegliarsi presto, uscire dal caldo del letto e spogliarsi.

Sbadiglio quando mi levo la maglia del pigiama e rabbrividisco. Senza pensarci troppo mi rimetto a letto, sotto alle coperte.

Non ho il tempo di chiudere gli occhi, perché la porta della mia camera viene spalancata e mia madre, con tono autoritario, mi impone di alzarmi.

Mi lamento, emettendo dei versi simili a quelli di un animale, ma poi le do retta. Almeno mi accompagnerà con la macchina e non dovrò andare a piedi fino a scuola, non credo che con questo freddo ci sarei riuscito.

Mi vesto svogliatamente e poi decido di prendere una brioche che mangerò nel tragitto fino a scuola. In macchina nessuno parla: mamma è concentrata a guardare la strada, io invece a guardare i vecchi messaggi con Cristina.

C'è una parte di me che vorrebbe sapere come sta, che cosa sta facendo. Vorrei sapere se adesso è felice o se si è pentita di come mi ha trattato.

La rabbia cresce di nuovo, quando ripenso a quanto sono stato stupido a farmi trattare in questo modo ma, prima che io perda il controllo, ripenso alle parole di Alice: devo smettere di darmi la colpa per quello che è successo, ho agito inconsapevole di quello che sarebbe stato il futuro e ho fatto solo ciò che mi sentivo.

Chiudo gli occhi e faccio dei respiri profondi, per calmarmi. Quando li riapro mi sento subito meglio.

Forse dovrei eliminare questi messaggi: rileggerli mi farà solo male e non ho bisogno di pensare al passato. Sicuro dei miei pensieri, mi affretto a cancellarli.

«Buona giornata, ci vediamo stasera», mi saluta mia madre.
«Stasera lavoro».

La sua espressione sorpresa è proprio ciò che mi aspettavo di vedere sul suo viso: le avevo detto di aver smesso di lavorare quando io e Cristina ci siamo lasciati, perché i soldi mi servivano solo per andare a trovarla e adesso non ne avrei più avuto bisogno.

Mia madre ha provato a farmi cambiare idea, a dirmi che avrei potuto lavorare ancora per essere più responsabile e indipendente. Ha cercato di spiegarmi che la mia vita non deve girare intorno a una ragazza, ma io non ho voluto sentire ragioni.

Adesso però lavorare non mi sembra una cattiva idea: in fondo mettere da parte dei soldi può farmi comodo e non devo chiedere più niente a mia madre. Con il bambino in arrivo avremo bisogno di più soldi e io posso dare una mano.

Il sorriso sulle labbra di mia madre mi fa capire che ho fatto la scelta giusta e sono contento di essere riuscito a darle una soddisfazione.

La saluto, poi mi affretto a entrare a scuola perché sono in ritardo come ogni mattina.

Il professore non è ancora arrivato, probabilmente sarà tra i corridoi a parlare con gli altri insegnanti, senza rendersi conto che non lo ascolta mai nessuno.

Ed è ciò che accade anche quando spiega: cerca disperatamente di attirare l'attenzione degli alunni, ma nessuno, o quasi, gli dà retta. Quando entra in classe, qualche minuto dopo, ci saluta con un sorriso impacciato, si avvicina alla cattedra e si siede sulla sua sedia.

Il professore di scienze è un uomo ambiguo, molto buffo: ha pochissimi capelli grigi sulla testa e gli occhi marroni sempre lucidi. Ma a renderlo buffo è il suo modo nervoso di agitare le mani quando parla.

Pronuncia il primo nome dell'appello e Mattia risponde distrattamente di essere presente, ma ha gli occhi fissi sul suo cellulare. E così anche quelli che vengono dopo: non lo ascolta nessuno neanche quando fa l'appello.

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