Osservavo il fumo che fuoriusciva dalla sigaretta che tenevo tra le dita compiere la sua danza nell'aria fredda di quella sera. Aveva appena cominciato a fare buio e il sole ormai era scomparso, sostituito dalle prime stelle che già sfavillavano nel cielo sereno. L'aria era abbastanza fresca, ma mi piaceva. Rinfrescava e depurava - per quanto potesse depurarmi visto che mi stavo intossicando col fumo.
Lanciai un'occhiata fugace sopra di me, soffermandomi poi sulle stelle e sulle chiome degli alberi che si intravedevano in lontananza, oltre i tetti delle case del vicinato e mi rilassai un poco, appoggiando la schiena contro il muro del retro di casa mia e distendendo le gambe scoperte. Indossavo solo un paio di calze che arrivavano a coprire solo la caviglia e una felpa, rubata dal cassetto di mio fratello qualche mese fa e mai tornata al suo posto. Era enorme e ci avrei vissuto, con quella felpa. Copriva tutte le "ferite di guerra", come le chiamavo io, copriva il mio cuore a pezzi, copriva il mio corpo quasi perfetto.
Non che io pensassi di avere un corpo da urlo, anzi. Ogni volta che mi guardavo allo specchio potevo notare qualche difetto, qui e lì. Ma a quanto pare le persone che mi circondavano non la pensavano così. Partendo da Bethany, la mia, se cosi si può definire, compagna di avventure, senonchè migliore amica. Con lei avevo fatto tutto. Prima sigaretta, prima canna, prima serata in discoteca, prima sbronza, prima scommessa, primo furto in un negozio...potrei continuare all'infinito. Non che lei fosse una cattiva influenza, anzi era il contrario e a volte temevo di essere io ad averla portata sulla cattiva strada. Non che fossi così cattiva, poi. Insomma, Dio avrebbe potuto trovare mille peccati in me, ma l'unico mio vero peccato era forse che avevo rubato, qualche tempo fa, e che fumavo. Non che poi me ne fregasse più di tanto dei miei peccati. Tanto sarei andata all'inferno comunque, perciò tanto valeva se ci andavo per diversi motivi e validi, magari.
Spostai lo sguardo verso il giardino, cercando di sbirciare verso il garage, che si trovava di fianco a casa, e non vedendo nessuna macchina constatai che mia madre non era ancora tornata dal lavoro. Finii la sigaretta e poi la spensi sul pavimento di cemento su cui ero seduta. La lanciai un po' più avanti e rientrai in casa, sentendo subito le risate di Nash e Benjamin, i miei fratelli.
Erano molto diversi, loro due. Nash era il primogenito con i suoi diciannove anni appena compiuti, capelli corti di un castano scuro, sempre in disordine e due occhi castani e per questo somigliava molto a papà. Era il tipo di ragazzo dietro cui tutte le ragazze sbaverebbero dietro e anche Ben non era da meno; aveva diciotto anni e, al contrario di Nash, aveva i capelli biondo cenere, e gli occhi chiari, come la mamma. Anche le loro personalità si contrapponevano: Nash, ragazzo studioso e iperprotettivo nei confronti delle persone a cui voleva bene, che malgrado la sua bellezza non si divertiva a giocare con le ragazze. Ben...donnaiolo? Sì. Strafottente? Sì. Vanitoso? Sì. Ma era un buon fratello, e stranamente non era odioso come gli altri ragazzi altezzosi che frequentava.
Anche se i due erano molto diversi andavano sempre d'accordo. Ma del resto gli opposti si attraggono.
E poi c'ero io. Tiffany Morgan. Sì, beh la storia del mio nome è abbastanza ridicola.
Mia madre aveva sempre amato il film "Colazione da Tiffany", e amava la protagonista. Così si ripromise che, se avesse avuto una figlia femmina l'avrebbe chiamata così.
Ed eccomi qui.
Una ragazza di normale statura, capelli scurissimi e occhi nocciola. Gambe lunghe e formose che piacevano a tutti tranne che a me, curve al punto giusto, bel visino... non so cosa ci vedano gli altri in me, sinceramente.
Appena varcai la soglia della cucina, dove si trovavano i miei fratelli, Nash alzò lo sguardo dalla pentola sul fuoco e mi guardò: «Tiff, si sente la puzza appena entri, non riuscirai a far credere alla mamma che hai smesso di fumare» disse.
Alzai le spalle, sospirando e sedendomi vicino a Ben, intento a giocare al nuovo gioco sul suo telefono.
«Penso che prima o poi accetterà questa cosa»
«Non penso, sai com'è fatta la mamma» ribadì Ben distraendosi dallo schermo del cellulare che teneva tra le mani.
Era il solito guastafeste. Assottigliai gli occhi a due fessure, incenerendolo con lo sguardo: «Tu non dovevi uscire con Oliver stasera?»
Lui fece la linguaccia e disse: «Per tua fortuna vado via tra mezz'ora, e dirò a Oliver di smetterla di provarci con te»
Nash proruppe in una risata,mentre toglieva la pentola dal fuoco . Era impossibile parlare con quei due. Sapevano come la pensavo riguardo ai ragazzi e "all'amore", se così si poteva chiamare, e anche se non la pensavano come me, rispettavano le mie idee.
I loro amici finivano sempre per provarci con me e questo mi infastidiva parecchio. Infatti quando portavano amici a casa mi chiudevo in camera mia, e facevo passare il tempo disegnando, o ascoltando musica.
Finsi una risata e gli pizzicai il braccio. «Non ho niente contro il tuo amico, ma l'unica cosa che sa fare è entrare nelle mutande delle ragazze, e qualsiasi ragazza con un minimo di cervello lo rifiuterebbe» guardai prima Benjamin e poi Nash, poi aggrottai le sopracciglia rendendomi conto di una cosa.
«Anche se ciò vorrebbe dire che in questa città sono solo io quella che gli sta lontana»
Ben sorrise tornando al suo giochino, e nello stesso momento sentimmo la macchina della mamma fermarsi davanti al garage. Quando entrò a casa sembrava stanca, come sempre. Le sue lievi rughe attorno gli occhi, formatesi col passare degli anni erano più evidenti e sotto i suoi occhi verdi come i prati si accennavano delle occhiaie violacee. I suo capelli ricci erano leggermente scompigliati dalla coda di cavallo. Ci salutò e si avviò verso il bagno, per una doccia rigenerante e tornò una mezz'oretta dopo, con il suo immancabile, splendido, quanto finto sorriso.

***

«Tesoro, te l'ho detto. Devi smetterla. Non so più cosa fare...». Mia madre prese un piatto e lo lavò con cura, poi passò ad un altro.
Stavo con le braccia incrociate, appoggiata al lavandino, osservando il pavimento, tutto d'un tratto diventato interessantissimo. Appena finito di cenare mia mamma mi aveva chiesto di rimanere lì con lei per parlare, e io sapevo già di cosa. Tanto non avrei smesso comunque. «Mamma ne abbiamo già parlato, e mi è sembrato di averti fatto capire che non ho intenzione di smettere di fumare. Lo capisci che è l'unica cosa che mi stare bene?»
Lei si fermò e lasciò perdere ciò che stava facendo, voltandosi verso di me. La bocca era tirata in una linea sottile e gli occhi leggermente tristi. Sospirò percorrendo con lo sguardo il mio viso.
Capii subito a cosa stava pensando. La mia ipotesi venne confermata quando, malgrado la mia silenziosa supplica che la pregava di tacere, disse: «Sei proprio proprio come tuo padre». I suoi occhi si velarono di lacrime, che però si sbrigò a nascondere. Scossi la testa, ignorando il fatto che ero ostinata e cocciuta quanto mio padre e frenando la mia lingua per non dire cose di cui poi mi sarei pentita. Ma non ero così. Io non avevo peli sulla lingua, le cose le dovevo dire e basta. Dicevo sempre agli altri ciò che pensavo in faccia, che fosse mia madre, o Bethany, o uno sconosciuto. Spazientita quasi urlai: «Non lo capisci vero?» avevo un groppo in gola, cosi deglutii più volte. «É inutile che lo dici. Sei tu che lo hai cacciato, quella sera. E lui ha colto l'occasione. Come puoi piangere per lui?».
«Forse non avrei dovuto cacciarlo quella sera, no» sussurrò mia madre, osservando un punto nel vuoto.
Mi voltai verso la porta che dava sul salotto, decisa ad andarmene ma poi aggiunsi: «Ti ha tradito! E tradendo te ha tradito anche noi. E forse cacciarlo è stata la cosa migliore che tu abbia mai potuto fare, perchè non avrei mai più potuto guardarlo negli occhi». Mi portai una mano alla guancia per cacciare una lacrima sfuggita al mio controllo, mentre la mamma scuoteva la testa aprendo la bocca per parlare, ma io la precedetti.
«Tu sai cosa penso di lui, mamma. Io lo odio per quello che ti ha fatto. Che ci ha fatto. E nulla potrà cambiare questo».
Detto ciò girai i tacchi e me ne andai, ignorando la voce di mia madre che ripeteva di tornare lì e finire il discorso. Ma forse, malgrado il mio carattere schietto e deciso e, devo ammetterlo, molto da stronza, scappare era ciò che mi riusciva meglio.
Salii in camera. Era piccola, ma in quelle quattro mura io vivevo. Era la mia casa, il mio rifugio, il mio nascondiglio.
Avevo dipinto io le pareti della camera.
Quando io, i miei fratelli, mamma e papà eravamo arrivati qui io ero piccolissima.
Quando fui abbastanza grande per avere una camera tutta mia mamma e papà decisero di darmi questa.
Qualche anno dopo, quando scoprii la mia vena artistica, la dipinsi.
Le pareti che all'inizio erano bianche diventarono un bellissimo disegno raffigurante una città, nel buio della notte.
Amavo quel disegno ,e ci avevo lavorato tantissimo, dalla mattina alla sera.
Ero sempre lì, rannicchiata a dipingere di qua e di là.
Al ritmo della musica, o nel silenzio più totale.
Avevo solo una regola, ovvero non avere regole.
L'artista è il creatore delle belle cose.
E io ero un'artista.
Malgrado tutto però io mi sentivo tanto come quei quadri astratti, che quando li guardi pensi: 'ma che cazzo è?'
Assalita dai ricordi mi buttai sul letto e piano piano mi addormentai, cadendo in un mondo di incubi.

Fall (sospesa)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora