37 (Bree: Remembering lightning)

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Dormiamo appena un paio d'ore e, dopo una rapida e svogliata colazione, Gigì torna a casa. L'espressione felice che ha indossato ieri non è stata cacciata nemmeno dalla stanchezza. Anche io mi sento serena. Appena lei va via inizio a prepararmi per andare in facoltà.
Fermo il motorino direttamente nel posteggio interno senza passare dal bar e senza curarmi se Samir sta ancora lavorando o meno in quella strada. Incontro Cristina alle macchinette.
- Che ci fai qui? Niente caffè da Evan? -
- Da oggi in poi solo macchinette. Almeno finchè Evan non torna quello che era. -
- Successo qualcosa? -
Le racconto della serata che si è persa ieri.
- Sapevo che sarebbe successo. -
- Cosa? -
- Niente, lascia stare. -
- Cri, non nascondere la mano dopo che hai tirato il sasso. Parla. -
- Prima di mettermi con lui, Evan era in cura da uno psicologo. -
- Cosa? Perché non me lo ha mai detto? -
- Perché si vergognava enormemente. Io stessa l'ho scoperto per caso perché l'ho incontrato mentre usciva dallo studio con suo padre. -
- Oh... -
- Mentre siamo stati insieme ha seguito la cura ed era arrivato a tenere sotto controllo tutto. -
- Tutto cosa? -
- Quando ci siamo lasciati mi ha promesso che si sarebbe continuato a curare, ma credo che non abbia mantenuto la promessa. -
- Cristina, tutto cosa? Parla chiaro. -
- Deve aver lasicato la cura quando ha saputo che eri incinta. I momenti di felicità sono i più pericolosi, li spingono ad abbandonare le cure credendosi guariti. E poi arrivano a questo. -
- Cristina, cazzo, parla. -
- Ha la bordeline. -
- La bordeline? -
- Sì, è un disturbo della personalità. Quando si sono accorti che l'aveva sviluppata, ha accettato bene il fatto di curarsi perciò non l'hanno rinchiuso in ospedale. Prendeva antidepressivi ed antipsicotici. -
Ascolto quello che mi dice sempre più sconvolta.
- Deve aver abbandonato la cura, perché pian piano ha ripresentato i sintomi. Tu non l'avrai notato perché li avrai attribuiti a qualcosa di momentaneo, a gelosia magari. Io li ho riconosciuti perché sapevo. Ma adesso, adesso non è più un dubbio. Adesso è certezza. -
La guardo sgranando gli occhi. - Cristina. - Le parlo fissando il vuoto, totalmente sconvolta da ciò che ho appena saputo. - Puoi prendere gli appunti anche per me. -
- Non vieni a lezione? -
- Devo andare da Evan. -
- Bree non te lo consiglio. Se non si sta curando può comportarsi in modo anche peggiore di ieri sera. -
- Devo provare. -
- Sta attenta, Bree. -
Le stampo un bacio sulla guancia e vado via.
Non vado da lui. Mi precipito a casa e inizio a documentarmi. Tra i sintomi del disturbo bordeline trovo "sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono". La giornata alla scogliera, quella in cui ho perso il bambino. Trovo anche "quadro di relazioni interpersonali caratterizzate dall’alternanza di iperidealizzazione e svalutazione" ed "instabilità affettiva". Non ci sarebbero parole migliori per descrivere la nostra relazione. Ancora la lista è composta da "rabbia immotivata", "difficoltà a controllare la rabbia" ed "ideazione paranoide". Questi li ha mostrati ieri sera. Mi convinco sempre di più che la sensazione di Cristina non sia errata.
Salgo sul motorino e volo verso casa sua. Arrivata lì, però, non trovo altri che la signora Nimei. La saluto cortesemente ed accetto volentieri la cioccolata che mi offre. Mi dice che le dispiace di non essersi fatta viva quando ha saputo del bambino, nè dopo quando ha saputo della perdita. Faccio finta di nulla. In fondo, loro non avevano nessun obbligo nei miei confronti. Finita la cioccolata, mi congedo velocemente per andare al bar.
Nemmeno lì trovo Evan.
- Buongiorno Signor Nimei. -
- Ciao Bree. - Stacca gli occhi a stento dalle tazzine che sta lavando.
Dentro il bar c'è poca gente. Mi accomodo di fronte al bancone. - Evan non c'è? -
- E' a casa. -
- Veramente no. -
- Cosa? - Alza gli occhi sgranati fissandoli nei miei.
- Sono appena stata lì, ma c'era solo sua moglie. -
- Cosa hai detto? Non era a casa? - Lascia stare le tazze e si asciuga freneticamente le mani sul grembiule. Le parole gli escono affannose di bocca.
- No. - Inizio a preoccuparmi.
Si slaccia il grembiule e lo getta sul bancone. - Sasha! - Urla.
Una donna sulla trentina si affaccia dal retro del locale. Ha i capelli a caschetto neri e grandi occhi grigi coperti da un paio di lenti da vista. - Che c'è capo? -
- Io devo andare. Il locale è in mano tua. -
- Cosa? Mi lascia da sola? -
- Affari di famiglia Sasha. -
- Ma io... -
- Non un'altra parola. Ti pagherò il doppio se sarà necessario, ma devi stare zitta e fare quello che ti ho detto. -
Sasha annuisce e si infila il grembiule che aveva il signor Nimei. Lui si rivolge a me. - Seguimi. -
Non capisco esattamente cosa stia succedendo, ma credo di immaginarlo. Mentre corriamo verso l'auto del signor Nimei, l'unica cosa che ho in mente è uno dei sintomi che ho letto. "Ricorrenti minacce, gesti e comportamenti suicidari".
Saliamo in macchina, l'accende e si infila velocemente in carreggiata.
- Singor Nimei cosa succede? -
- Devo trovarlo Bree. Dobbiamo trovarlo. -
- Signor Nimei, ha paura che possa succedere qualcosa? -
- Una paura fottuta. - Si blocca un attimo e si volta verso di me. - Scusa il termine. -
- Non si preoccupi signor Nimei. -
- Claudio, chiamami Claudio. -
Continua a correre come un pazzo verso l'uscita dalla città.
- Dove stiamo andando? -
- Nell'unico posto dove potrebbe essere. -

Dopo poco arriviamo a destinazione. Riconosco subito il posto. Siamo alla scogliera. Claudio scende dall'auto e attraverso lo stradone iniziando ad urlare il nome del figlio. Lo seguo in silenzio, ma arrivati dall'altra parte della strada lo supero scavalcando il muretto per prima. Poi entrambi ci blocchiamo.
Evan è seduto sul ciglio della scogliera. Nonostante il caldo che è ormai arrivato, ha addosso una pesante felpa azzurra. Guardo suo padre. E' pietrificato. Faccio per avvicinarmi ad Evan, ma Claudio mi blocca.
- Potrebbe essere pericoloso Bree. -
- Lo so signor Nimei...volevo dire, Claudio. -
- Potrebbe buttarsi o farti del male. -
Prendo la sua mano e la forzo delicatamente per schiuderla. - Devo fare qualcosa e devo farla io. Vada in macchina. - Dargli il 'tu' mi sembra strano, iniziare in questa situazione poi. - Fidati di me. -
Impaurito, Claudio annuisce e mi lascia andare da Evan. Mi avvicino camminando piano e cercando di essere il più tranquilla possibile. Mi siedo dietro di lui e lo abbraccio dopo avergli tolto il cappuccio della felpa dalla testa. Sento le sue mani poggiarsi delicatamente sulle mie che lo cingono.
- Come stai, dolcezza? - Mi dice.
Respiro profondamente e raccolgo tutte le energie per poter rispondere senza che la voce tremi. - Abbracciata a te sto sempre bene. -
Volta un po' la testa verso di me, sorridendomi. - Cucciola, la piccola come sta? -
- Mica è sicuro che è una femmina! - Sta parlando del bambino che non c'è più, ne sono sicura. Ho l'anima che si straccia ad ogni parola, ma so che questo è l'unico modo per farlo allontanare da qui ancora intero. Mi sforzo di sorridere. - Io ho freddino, sai? -
- Vuoi la mia felpa? -
- No, vorrei tornare a casa. -
- Sicura? -
- Sì... - Deglutisco. - Sì, amore. -
Sorride ancora di più e mi bacia la punta del naso. - Tutto per la mia piccola. -
Ci alziamo piano e ci avviamo verso la sua macchina. - Mi fai guidare? - Dico saltellando, fingendomi una ragazzina neopatentata. - Ti prego, ti prego, ti prego. - Occhioni da cerbiatta mode on.
- Basta che stai attenta. Voglio che la mia piccola nasca sana. -
Sorrido e prendo le chiavi. Dentro di me tiro un sospiro di sollievo.
Ci porto a casa sua. Claudio ci ha seguito per tutto il tempo a debita distanza, per non farsi notare da Evan. Entriamo in casa. Claudio rientra poco dopo di noi. Al suo arrivo si piomba sul figlio.
- Dove sei stato? -
- Fuori con Bree, papà. -
Con gli occhi gli confermo che sto bene e gli chiedo di non farlo alterare. Lui si avvicina a me e mi sussurra che in qualche modo dobbiamo convincerlo ad andare dal dottore per ricominciare le cure. Gli rispondo di lasciar fare a me.
Torno da Evan mentre Claudio resta nella stanza.
- Dammi la mano. - La poggio sulla pancia. - Evan, qui dentro sai cosa c'è? -
- C'è il nostro bimbo. -
- No, Evan. Il nostro bambino se ne è andato. -
- Cosa? -
- Sei stato tu, ricordi? Sulla scogliera. Mi hai aggredito perchè eri geloso di Steve. Ricordi? -
Evan ritira la mano e si siede sul divanetto.
- E ricordi ieri? Hai provato a rifarlo. -
Mi fissa in silenzio con lo sguardo colpevole.
- Lo so, ma non è colpa mia. -
- E di chi è? -
- C'era qualcosa che mi spingeva. -
- Non c'era niente. -
Abbassa gli occhi a fissare la moquet.
- Da quando hai smesso di prendere le medicine? -
Non mi risponde. Mi avvicino a lui e gli sollevo il viso costringendolo a guardarmi.
- Rispondimi. Quando hai smesso con le medicine? -
- Quando hai saputo di essere incinta. Credevo di stare bene, ormai. Credevo di essere ok. -
- Invece non eri ok, Evan. Quella cura è l'unica cosa che può farti stare ok. Lo sai? -
- Quello che mi fa stare bene sei tu. - Prova a baciarmi, ma mi scosto velocemente.
- Non sono io Evan, sono le medicine. - Vedo la rabbia affiorare nei suoi occhi. So che sta per esplodere di nuovo. - Evan, devi tornare dal dottore. -
Si alza ed inizia a urlare che non ci tornerà mai.
- Evan, devi andarci. Fallo per me. -
- Zitta, puttana! - Urla.
Claudio si precipita su di lui e gli blocca le braccia in tempo per evitarmi un pungo in piena faccia. La signora Nimei arriva dalla cucina e gli infila una siringa nel collo. Dopo pochi istanti Evan è addormentato sul pavimento.
- Erano anni che non usavamo il sedativo con lui. -
- Cosa succederà adesso? - Chiedo ancora scossa.
- Lo portiamo in clinica. Stavolta dovrà starci. Lì lo cureranno bene. - Claudio si avvicina a me e mi abbraccia. - Vieni, ti porto a casa. -
- Il mio motorino è al bar. -
- Lasciami le chiavi, te lo faccio portare da Sasha quando stacca. -
- No, no. Povera Sasha! Non voglio darle altro disturbo. Faccio una chiamata. -
Chiamo Steve.
- Pronto piccola. Ti pensavo, sai? -
- Steve mi serve un favore. -
- E' successo qualcosa? - Mi chiede preoccupato.
- Ti racconto tutto dopo. Avresti modo di arrivare al bar di fronte alla facoltà? -
- Quello dove lavora quel figlio di puttana? -
- Esatto. Ho lasciato il motorino lì. Potresti portarmelo a casa? Le chiavi le ha il signor Nimei. Tranquillo che lui non c'è. -
- Ok piccola. -
- Ti aspetto a casa allora. Pranziamo insieme e poi ti riaccompagno io, in caso. -
- Intanto vediamoci da te. Ciao piccola. -

Claudio mi ha riaccompagnato a casa ringraziandomi per quello che ho fatto per Evan nonostante non se lo meritasse per come mi ha trattata. Dopo mezz'oretta è arrivato Steve. Gli ho raccontato tutto tra le lacrime.
Nessuno dei due si sentiva di mangiare perciò siamo andati in camera e abbiamo passato il pomeriggio abbracciati in silenzio. Lo desideravo da tanto.

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