66 (Bree: Remembering lightning)

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Jeans attilati fasciano le sue gambe lunghissime. Una maglietta scollata lascia in bella vista il suo seno. I capelli biondi sono legati in una coda studiatamente scomposta. Eyeliner nero sottoliea i suoi occhi, resi ancora più intensi da chili di mascara nero. Rachele fa la sua entrata trionfale in camera senza accorgersi di me.
- Perché non c'è mai un distributore rifornito quando ti serve? - Entra velocemente e senza guardarsi in giro si siede sul letto di Steve, lanciandogli la sua borsa.
Steve la guarda stralunato. Io, io non so nemmeno come guardarla. Come guardarlo. Come guardarli. - Che ci fai qui? - Le dice, quasi fosse sconvolto di vederla.
- Come, che ci faccio qui? Eravamo rimasti di chiarire questa storia stasera, no? Non sei tornato a casa per questo? -
- Quale storia dovete chiarire? - Incazzata nera, mi avvicino cercando di mantenere la calma.
Rachele non si aspettava di trovarmi qui evidentemente. Scatta in piedi spaventata. - Lei che ci fa qui? -
- No, tesoro. La domanda giusta è che ci fai tu qui. -
- Steve, lei che ci fa qui? - Continua ad avvicinarsi a lui che sembra essere nel panico.
- Già, Steve. Lui deve rispondere. - Mi incollo a lui. Gli prendo il mento stringendolo nella mia mano. Inerme, non oppone la minima resistenza. - Spiegami che cazzo sta succedendo. Ed evita le minchiate. - Lo lascio e mi siedo sul divano accavallando le gambe per poggiarci le mani incrociate sopra. - Ti ascolto. -
- Bree, io... - Fissa il pavimento. Balbetta una serie continua di 'non so come dirtelo' e 'mi dispiace'.
- Cazzo, ok! Lo faccio io. - Rachele gli strappa la borsa dalle mani e vi fruga dentro.
- Che vuoi fare? No. Sta ferma! - Cerca di bloccarle le mani, ma lei riesce comunque a trovare quello che cercava. Me lo lancia per poi lasciar andre la borsa a terra.
Steve corre verso di me cercando di strapparmi di mano la sottile scatola di cartone che non ho ancora guardato bene. Mi dice di lasciar perdere, che è tutto un equivoco, che non è come sembra. Non lo ascolto, non ascolto le sue stupide scuse. Voglio sapere e basta. Mi alzo di scatto portando con le ma scatolina ed osservandola per la prima volta.
Mi manca il battito da dentro il petto. Mi si blocca il respiro. Sento le gambe cedere. Ricado sul divano guardando ancora sbigottita la scatola. - Che significa? - Sussurro. Lascio andare la scatola e mi appendo con tutta la forza ai capelli Steve. Non oppone resistenza, non urla. Lascia che lo strattoni fino a portare il suo viso a pochi centrimetri dal mio. Urlo, urlo con quanta forza riesco a trovare. - Che cazzo significa? - Lascio andare anche lui. Mi prendo il viso tra le mani e piango, libero le lacrime che ho respinto indietro dal momento in cui ho letto quella maledetta scritta.
- Bree, io... -
- 'Bree, io' uno stracazzo! - Continuo a urlare. - Perché Rachele è venuta qui, da te, con un test di gravidanza? Perché? -
- Io, io posso spiegarti tutto. -
Mi alzo dal divano ed inizio a camminare per la stanza, completamente sconvolta, senza riuscire a formulare un pensiero che non fosse 'voglio andaremene di qua'. Steve mi viene dietro cercando di afferrarmi i polsi e continuando a ripetere cose a cui nemmeno lui crede.
- Steve, basta. Dille tutto. - Rachele è in piedi accanto al letto. Non è spaventata. Non è sconvolta. Sembra, al contrario, stranamente tranquilla. Stranamente soddisfatta, oserei dire.
- Sì, Steve. Dimmi tutto. -
Mi fissa. Gli occhi verdi sono completamente contornati di rosso e allagati di lacrime. Non dice una sola parola. Cerca di afferrarmi le mani, ma non glielo lascio fare. Non voglio che mi tocchi, non voglio neanche che pensi di toccarmi.
- Lo dirò io, allora. - Si mette tra di noi. Gli poggia una mano sul petto nudo. Steve si allontana, continuando a fissarmi negli occhi piangendo. Lo seguo finché non si siede accanto alla scrivania sprofondando il viso tra le mani per dare sfogo al suo pianto. - Sono incinta, Bree. - Quasi sorride mentre lo dice.
Un pugno, dritto allo stomaco. - E perché sei qui? - La guardo tentando di frenare le lacrime e di riprendere un po' di contegno.
Abbassa gli occhi al pavimento, poi torna a guardarmi. Sorride, sì. Stavolta sorride e basta, senza tentare di nasconderlo. - Perché il padre di mio figlio è lui. - Me lo spara in pieno volto. Una fucilata a brucia pelo.
Le gambe cedono ancora. Riesco a tenermi in piedi solo appoggiandomi al muro. - No. - E' l'unica cosa che riesco a dire. - Non può essere vero. - E' l'unica cosa che riesco a pensare. - Dimmi che non è vero. - Vado verso la scrivania. Steve continua a fissare il pavimento senza muovere un muscolo. Lo scuoto più che posso. - Dimmi che non è vero, Steve! - Le gambe non mi reggono più, cado in ginocchio davanti a lui, ricominciando a piangere. Non riesco a pensare ad altro, a loro insieme come noi due noi siamo mai stati. - Ti prego, dimmi che sta mentendo. Ti prego. - Continuo a piangere singhiozzando, abbracciando le sue gambe. - Dimmelo, Steve. Dimmelo! -
Finalmente riesco ad alzare lo sguardo. Lui fa altrettanto. Restiamo per qualche secondo a fissarci in silenzio. Occhi negli occhi, cerco di leggere i suoi pensieri. Sta piangendo anche lui, ma nessun cenno di negazione gli compare in volto.
- Quindi è vero. - Mi rialzo in silenzio. Tiro su col naso e mi asciugo il volto. Lotto con me stessa per serrare i cancelli alle lacrime. Devo andarmene di qui e devo farlo con la mia dignità. Lui è la merda, non io. Lui fa schifo, non io. Lui mi ha pugnalato alle spalle, non io. Prendo le chiavi dell'auto di Steve che stanno accanto al computer, mentre lui non guarda. Mi avvio a passo deciso verso l'uscita.
Rachele ancora sorride, guardandomi a braccia incrociate. Mi fermo di fronte a lei. Uno sputo, uno soltanto. Centro le sue scarpe in pieno anche se avrei voluto spararglielo al centro di quella faccia da troia che ostenta con tanta superbia. Arrivata alla porta, guardo Steve facendo spenzolare le sue chiavi nel vuoto.
- Mi ha accompagnato qui Gigì perciò prendo la tua auto per andare via. Te la riporterò domani. - Sbatto la porta alle mie spalle e inizio a correre verso la sua auto.
Sento la porta riaprirsi e passi veloci inseguirmi. - No, Bree. Non puoi guidare in questo modo. Sei sconvolta. Non farlo. -
Non bado a nulla. Continuo a correre, mentre ricomincio a piangere. Mi fiondo nella sua auto, inserendo le sicure appena in tempo. Steve cerca di aprire la portiera, ma non può. Inserisco le chiavi ma non parto. Sto immobile a fissare il volante piangendo, mentre lui continua a battere i pugni sul vetro cercando di convincermi a scendere. Mi volto a guardarlo e solo allora si ferma, coi palmi delle mani attaccati al vetro e il suo solito sguardo pieno di preoccupazione. - Mi fai schifo. - Glielo regalo e mi sento più libera.
Avvio il motore e in retromarcia esco dal viottolo. Mi insegue correndo, ma appena arrivo in strada ci sto poco a distansiarlo. Vedo Teddina dondolare appesa allo specchietto retrovisore. Inchiodo l'auto, slaccio il nastrino e la prendo in mano. Steve mi raggiunge. Abbasso il finestrino a metà.
- Ti sei convinta che è una follia? -
- No. - Lascio cadere Teddina sull'asfalto e do gas di nuovo.
Mentre correndo mi allontano, lo fisso dallo specchietto. E' rimasto immobile, fermo al centro della strada, con Teddina in mano. Lo vedo farsi sempre più piccolo, fino a scomparire. Ed è questo quello che dovrà fare, sparire. Sparire dalla mia vita, dai miei ricordi, dal mio cuore. Facile a dirsì, no? Ma non è per niente facile, no. Come non è facile adesso smettere di piangere. La vista mi si appanna spesso per le lacrime, ma non riesco a smettere di correre. Ho bisogno di togliermelo dalla testa, di cancellare le immagini che si sono formate di lui mentre mi tradisce con Rachele, con quella che 'non significa niente per me'.
Macino chilometri, su chilometri. Accendo la radio e canto a squarciagola tra le lacrime mentre la strada mi porta fuori città, alla scogliera. Un altro posto maledetto, un'altra perdita, un altro tradimento. Se è vero che il destino si diverte a giocare, con me si sta dimostrando un sadico.
Fermo la macchina nello stesso punto in cui ci fermammo con Evan, spengo la radio e scendo. Mi siedo sul cofano e fisso lo sguardo in cielo, a quelle stelle che mi hanno visto crescere. Posso sentirle ridere di me, se mi concentro. Stanno ridendo senz'altro di una povera cogliona che si è lasciata abbindolare da un paio di occhi verdi, che per l'ennesima volta ha creduto ciecamente a qualcuno che le ha piantato un pugnale tra le scapole alla prima occasione. Non starò qui a farmi prendere in giro da degli stupidi ammassi di gas incandescente. Rientro in macchina e riparto. Faccio inversione per tornare a casa. Riaccendo la radio e parte lei, la canzone che ha sempre accompagnato i nostri viaggi in macchina e che ha fatto da sottofondo alle nostre mille confessioni. Sì, il destino è decisamente il più sadico enigmista che esista. Non ho più nemmeno la forza di dedicarmi a un pianto disperato, ma lascio che le lacrime scorrano al loro ritmo sul mio viso annebbiandomi la vista a tratti.
No, non ce la faccio più. Devo cambiare canzone. Non posso ascoltarla ancora, non adesso. Cerco il pulsante da premere e ne provo un paio. Inizio a picchiare la radio che non vuole ascoltarmi. Sento il suono di un clacson suonato insistentemente. Riporto gli occhi sulla strada. Oddio. La luce di due enormi fari mi circonda completamente. Pianto il piede sul freno ma non serve a nulla. Chiudo gli occhi per istinto di protezione. Sento un boato, un botto incredibile, rumore di ferraglia che si accartoccia come fosse la carta che avvolge una caramella. Urla, mie e non solo. Apro gli occhi, ho le mani sporche di sangue. Dolore alle tempie, urlo ancora. Poi, nulla più.

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