69 (Bree: Remembering lightning)

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Passi corti e lenti. Cammino osservando intorno a me questa strana sensazione di pace e nostalgia. Una leggera brezza mi accarezza il viso e solletica le fronde degli alberi che costeggiano il viottolo. Guardo in silenzio le lapidi che mi scorrono accanto, quasi tutte appartenenti a persone che sono state strappate alla vita troppo presto. La foto di un bambino sorridente mi costringe a fermarmi per osservarla. Aveva solo quattro anni. Mi si stringere un nodo in gola. Sotto la foto la solita frase incisa 'Dio aveva bisogno di un angelo'. Cazzate. Dio di angeli ne ha a miliardi e non c'entra niente con la sventurata morte di una povera creatura. Come può una frase del genere consolare una madre? Una lacrima mi riga il volto mentre riprendo a camminare continuando ad osservare quelle fredde lastre addobbate di fiori. Qualche lapide è un po' più vecchia e meno curata delle altre. Madri, padri, figli, zii, nonni. Tutte queste persone che ora riposano beatamente sottoterra sono state almeno una di queste cose e avranno lasciato chissà quanti vuoti nel cuore e nella vita di chi è rimasto.

Raggiungo la cappella che mi ha indicato mio padre.

- Non puoi sbagliarti. - Mi ha detto. - L'unica con le pareti di vetro è quella della famiglia della madre di Daniel. -

In effetti è l'unica ad essere così discretamente particolare nella sua semplice eleganza. Resto ad osservarla senza il coraggio di entrare. Si distinguono chiaramente le quattro nicchie laterali, due delle quali sono purtroppo già occupate. Al centro del pavimeno di marmo bianco, una lapide di vetro sovrasta un rettangolo di cemento fresco. Non riesco a leggere il nome scritto a lettere dorate nè a distinguere il viso raffigurato nella foto, ma in cuore mio sono già sicura che quella sia la tomba di Daniel. La piccola cappella non è vuota. Una donna è seduta sul pavimento ed accarezza il vetro della lapide. Un uomo sistema dei fiori rossi, viola e bianchi in un vaso per poi poggiarlo davanti alla lapide ed andare ad abbracciare la donna. Devono essere i genitori di Daniel. O meglio, sua madre e l'uomo che gli ha fatto da padre.

Mi asciugo il viso, respiro profondamente facendomi coraggio ed oltrepasso la soglia. I miei passi fanno sussultare la coppia che si volta a guardarmi in lacrime.

- Salve. - L'unica cosa che riesco a dire.

Mi avvicino alla lapide anch'io e mi accovaccio per vedere meglio. La scritta dorata urla il suo nome: Daniel Ricceri. Fisso nella foto i suoi stupendi occhi color ghiaccio. Li accarezzo chiudendo i miei e ritornando con la mente al giorno in cui ci siamo conosciuti. Un sorriso mi affiora sulle labbra, ma presto inizia a tremare. Non riesco a frenare le lacrime, nè i singhiozzi, nè le mani che tremano. Sento due mani calde afferrare le mie e qualcuno accarezzarmi la testa.

- Eri sua amica? - Mi chiede una voce calda e dolce.

- Una specie. - Mi alzo in piedi e cerco di ricompormi. Come posso piangere in questo modo davanti ai suoi genitori che stanno provando almeno il triplo del mio dolore?

Guardo sua madre. Moira dovrebbe chiamarsi, no? Papà aveva ragione. Ha gli stessi occhi di Daniel. I suoi capelli sono rosso rame. Ha la pelle chiara che non dimostra gli anni che possiede. Suo marito è alto, coi capelli brizzolati e profondi occhi neri. Assomiglierebbe quasi a mio padre se non fosse molto più alto di lui e il suo viso non fosse così magro. Entrambi mi guardano sorridendo, ma con occhi arrossati e pieni di dolore.

- Non lo conoscevo da molto in realtà, però eravamo comunque molto legati. - Non mi viene in mente altro modo per scusare il mio essere qui oggi.

- Daniel è un bravo ragazzo. - Sua madre parla come se in realtà non capisse dove si trova. La sua voce è flebile e distratta. - Non doveva andarci a quella festa. Doveva studiare per gli esami della patente. - La voce le si spezza in gola.

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