Chapter Thirty-Three

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Mi mordicchio il labbro inferiore, presa da un'ansia impossibile da descrivere a parole, e poi inizio a giocherellare con le mani sudaticce, camminando avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro.

Cosa faccio? Cosa dovrei fare adesso? Perché mi sono chiusa fuori? Faccio ancora in tempo ad entrare, ma i miei piedi non sono d'accordo con questa cosa, i miei piedi che non riescono a fare altro che camminare avanti e indietro per la mia stanza, strisciando sul pavimento liscio, facendo un rumore sinistro.

Mi blocco, ad un tratto, ed esco dalla stanza, decisa. Be', facendo finta di essere decisa. E mi dirigo verso la biblioteca, notando l'orrore in cui è stata ridotta la scuola. Diversi muri sono crollati, altri sono sul punto di farlo, e le crepe sono così grandi che potrei infilarmici dentro facilmente. Alcuni studenti si stanno impegnando ad aiutarne altri, per poi scappare, tutti nella direzione opposta alla mia. Mi sento come l'artista disegnato da Munch in Anticonformismo d'artista, l'unico quadro che mi abbia mai seriamente trasmesso qualcosa, l'unico che mi abbia mai davvero emozionato.

Sospiro e continuo a guardarmi attorno, osservando sconvolta i volti dei miei compagni, sporchi, insanguinati, spaventati. Alcuni cercano di portarmi con loro, prendendomi per un braccio, ma io scuoto sempre la testa e li lascio andare, con una sicurezza che sono certa di mostrare, ma sono poco certa di avere.

Mi lascio alle spalle l'orrore e mi chiudo in biblioteca, l'unica stanza che ha resistito a tutto e che probabilmente resisterà a tutto. Alcuni libri sono caduti per terra, ma decido di non riporli al loro posto. Non c'è tempo.

Entro nella stanza segreta, attenta a non farmi vedere da nessuno – non che ci sia qualcuno da queste parti – e poi rilascio un bel sospiro quando mi ritrovo i soliti tavoli, le solite sedie e il solito divano. È come se tutto ciò che sia successo là fuori, qua dentro non sia accaduto.

Ma lascio andare via i pensieri futili, e mi rimetto a camminare, dirigendomi verso la porticina che Aurora ha sempre tenuto nascosta, ma che io sono sempre riuscita a vedere. La apro, con la mano leggermente tremolante, e ciò che mi ritrovo davanti è polvere, disastro, libri buttati per terra e poltrone cadute di lato, messe ormai in posizione fetale, spaventate.

Mi incammino pian piano dentro lo studio del preside, un'ampia stanza fatta di colori scuri, ma caldi, che racconta una storia che mai si è scoperta. Inizio a guardarmi attorno, cercando due persone nello specifico, che trovo poco dopo, sotto la grande scrivania in legno.

«Aurora!» urlo, e la mia voce risuona per tutta la stanza, in un'eco senza fine.
«Rain» dice lei con voce sottile, per poi far risuonare nella stanza un singulto strozzato.
«Che... che cosa è successo?» le chiedo, inginocchiandomi al suo fianco, sentendo il pavimento duro contro le ginocchia deboli.

«Ci hanno attaccato. Non so chi, ma...» un singhiozzo abbandona le sue labbra e la sua testa inizia a scuotersi. «Non so chi, ma l'hanno fatto. E mio zio...» si interrompe un'altra volta e lacrime copiose e amare le bagnano le guance arrossate. «E mio zio è morto.»

Mi basta una veloce occhiata verso il corpo accanto al suo per sentire un po' di bile risalire. È suo zio, il preside, disteso a pancia in su, un rivolo di sangue alla bocca e alla fronte, un corpo immobile.
Tutto ciò è assurdo. Tutto ciò è impossibile.

«Dobbiamo andare via da qui, Aurora» le dico dolcemente, sapendo che le parole piene di compassione sarebbe meglio risparmiarsele in un momento simile.
«Hai ragione» sussurra lei, la voce graffiata dal pianto. Si alza lentamente, non senza dar prima un ultimo bacio sulla fronte di suo zio, e poi si incammina verso la porta principale.

«Non sarebbe meglio uscire dal retro?» le chiedo, indicando la porticina che porta alla sua stanza privata.
«No, andiamo di qui» dice sicura, facendomi annuire accondiscendente.

La situazione è terribile anche in quest'altro lato della scuola e mi lascia completamente stupita, le parole a mancare, la voce a mancare.

Fino a che i disastri non li si vive, non è facile capirli. È come perdere tutto, è come vedersi crollare davanti il proprio futuro, la propria vita, i propri sogni, è come essere in un incubo, ma reale, senza alcuna via d'uscita. E non si trovano le parole giuste, e non si trovano i gesti giusti, neanche le espressioni giuste. Si sta così, con la bocca aperta, gli occhi sbarrati, le mani tremanti. Si sta così, che non si sta.

Arriviamo alla mia stanza e Aurora mi fa cenno di aprire la porticina. Entriamo entrambe e i ragazzi ci accolgono con grandi abbracci e tante lacrime, e Ares mi accoglie con la coda scodinzolante e gli occhietti felici, di uno che non ha idea di cosa sia accaduto, e in questo momento vorrei essere lui.

«Allora, che si fa?» chiede subito Saturn.
«Si va a Los Angeles» risponde subito Aurora.

🌸🌸🌸

HOOOLA!
Come state? Come va la vita?
Spero tutto bene.

Cosa ne pensate di questo capitolo?
Fatemi sapere con un commento e ricordatevi di lasciare una stellina!

Oggi vado a tatuarmi e sono presa un po' a bene, aaah.
Voi avete tatuaggi? Oppure ne vorreste fare? Se sì, quali?

Grazie mille per tutto e ci ritroviamo giovedì con Freaking me out.
#Staytuned 😎
A presto.
- Tatia;

⭐️👁👁💧

Rain || 5SOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora