Capitolo 13 - Honos alit artes -

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"Contra fortunam illi tenendus est cursus; multa accident dura, aspera, sed quae molliat et conplanet ipse. Ignis aurum probat, miseria fortes viros"
Seneca, De providentia, 9

Roma, 7 giugno 49 d.C.

L'imperatore Claudio si trascinava con fatica all'interno del palazzo imperiale, la gamba zoppiccante gli creava sempre più problemi ed oltre ad essa molti altri stavano subentrando sul suo fisico sempre più debole e deperito.

Rivolse lo sguardo verso la balconata e udì qualcuno suonare la cetra, vide, il figlio adottivo Lucio Domizio appoggiato al muretto con lo sguardo perso a rimirare il cielo. Indossava la tunica corta e portava i capelli ricci, lunghi sulla nuca, alla moda greca.

Nonostante i suoi 11 anni era incredibilmente robusto. A differenza del fratello Germanico e di Agrippina stessa, Claudio era tutt'altro che imponente, considerando poi che non ebbe mai occasione di esercitare il fisico, il suo corpo rimase gracile e sofferente.

Il ragazzino smise di suonare quando si accorse della presenza di qualcuno e si voltò, stupito, nel vedere l'imperatore  osservarlo con molta attenzione.

- Perché hai smesso, Lucio? - chiese l'uomo sbalordito - ‎Era una melodia meravigliosa

- Ma..maestà....io.... - iniziò il ragazzino con imbarazzo.

- Ancora con queste formalità, Lucio, chiamami padre anche se lo sono solo formalmente, maestà mi fa sentire vecchio - rise spontaneamente Claudio.

- Scusate, padre - deglutì il ragazzino inchinandosi - Credevo di recare disturbo alla vostra persona

- Perché di-dici questo?

- Perché al nostro popolo non è molto gradita la musica - riferì tagliente il figlio e ciò lasciò perplesso l'imperatore.

- È-è stata tua madre a dirlo? - domandò cercando di frenare la balbuzie che si mostrava nei momenti di cedimento, di incertezza.

- Si, pa-padre, per lei solo il sangue e il potere contano - affermò con freddezza guardandolo fisso negli occhi.

- È ve-vero, ma le arti greche non si devono ce-certo disdegnare, sono importanti per il nostro spirito - lo rassicurò Claudio; chi meglio di lui poteva dire ciò, in quanto la cultura era stato l'unico mezzo che aveva avuto per considerarsi ancora un uomo.

Quando aveva tanto tempo libero, prima di diventare imperatore, sotto la guida di Tito Livio, uno dei migliori storici dell'epoca, scrisse molte opere: una storia su Roma che rimase incompiuta, in venti libri scrisse della storia di Cartagine e in otto quella degli Etruschi, entrambi in greco.

Il suo stile elegante si distinse anche nella Difesa a Cicerone; inoltre apportò modifiche nell'alfabeto romano, introducendo tre lettere estrapolandole dal greco.

Purtroppo con la sua ascesa al trono, non aveva avuto più il tempo di dedicarsi giornalmente a queste attività, scribacchiava qualcosa in quelle poche ore di libertà che poteva permettersi.

- Dite sul serio? - esclamò incredulo il ragazzino con gli occhi celesti colmi di speranza. 

L'imperatore stava quasi per rispondere a Lucio quando il suo adorato figlio di 8 anni, Tiberio Claudio Cesare, soprannominato dal padre stesso Britannico, in onore della sua vittoria, corse tra le sue braccia per salutarlo.

Era gracile e minuto come il padre, molto più basso di Lucio Domizio, dai grandi occhi neri, i capelli lunghi e castani, il viso era levigato e liscio come una pesca.

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