Capitolo 8 - Tacitum vivit sub pectore vulnus -

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"Est modus in rebus, sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum"
Orazio, Satire, I, 1, vv. 106-107

Cassio Cherea, Cornelio Sabino, Papiniano ed altri congiurati che non fecero in tempo a fuggire, furono portati, dai loro ex soldati, al cospetto del nuovo imperatore, che li fissava con attenzione.

- Prima della vostra esecuzione - esordì Claudio cordialmente - Vorrei concedervi la possibilità di ottenere la grazia, anche se avete cospirato contro mio nipote, mi avete permesso di ottenere un titolo al quale non avrei mai potuto aspirare con le mie sole forze - aggiunse poi con un'espressione serena.

I pochi presenti al palazzo imperiale rimasero stupiti di fronte a tale atto di magnanimità, era dai tempi di Giulio Cesare che non si vedevano gesti di grande umanità verso uomini che avevano messo a repentaglio la vita stessa dell'Impero.

Soprattutto dopo gli anni cupi, violenti e crudeli di Tiberio prima e Caligola poi.

Claudio sembrava incarnare lo spirito del grande condottiero: colto, dalla mente aperta, brillante e soprattutto generoso.

Ma Cassio Cherea non si fidava di tutta quella bontà, la percepiva come una trappola; Claudio non aveva mai toccato con mano i giochi di potere e gli intrighi, però li aveva intravisti da lontano, da dietro una porta o una tenda, perciò li conosceva meglio di chiunque altro.

Il silenzio regnava sovrano in quegli istanti, nonostante si respirasse un'aria carica di tensione.

Nessuno aveva però intenzione di prendere la parola per primo; si scambiavano occhiate intense e più eloquenti di qualsiasi discorso.

I tre congiurati si intesero subito e con un lieve accenno del capo diedero a Cassio il permesso di parlare anche a loro nome.

- Noi non abbiamo bisogno della vostra grazia! - esclamò Cassio cupamente - Siamo pronti a subire la nostra condanna, il vostro potere è più deleterio della morte!

A quelle parole, senza mutare la sua espressione pacata, con un gesto della mano, ordinò ai soldati di portarli sul patibolo, davanti a tutta la popolazione.

Senza nemmeno dar loro il tempo di prendere fiato gli si buttarono addosso e gli legarono le mani dietro la schiena, spingendoli verso l'uscita per eseguire la passeggiata ignobile.

Claudio fece cenno ad uno dei presenti di avvicinarsi e quest'ultimo si posizionó con l'orecchio vicino le labbra; allorché l'imperatore gli bisbigliò: - Concedete alla città l'amnistia e fate tornare nei loro paesi natale gli esiliati da Caligola

- Come desiderate, imperatore - rispose sorridente l'uomo; in cuor suo era convinto che con Claudio sarebbe tornata l'era della pace augustea di cui la città e l'Impero avevano bisogno.

I tre congiurati camminavano a testa alta verso il luogo d'esecuzione nonostante gli insulti, gli sputi, le percosse e le sassate che si facevano strada lungo il tragitto; Cassio Cherea in particolare non mostrava alcun ripensamento, era convinto fino in fondo di ciò che aveva fatto, e l'ultima cosa che lo spaventava era proprio la morte.

Disprezzava tutti quei concittadini che lo sbeffeggiavano: si erano già dimenticati di averli liberati dal sanguinario Caligola, ma lui non lo aveva fatto per loro, lo aveva fatto solo per sé e i pochi fedeli che, come lui, stavano condividendo la medesima sorte.

Sapeva, infatti, che il popolo si dimenticava subito della gratitudine e benevolenza ricevute, riportando alla luce solo il malgoverno e i soprusi.

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