42: Senza confini

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26 Dicembre 2003

Draco's p.o.v.

Se continuo di questo passo, consumerò il pavimento dell'ingresso.

Granger non si è vista, né ieri sera né stamane a colazione e io...

Io sono un idiota che non riesce nemmeno a stare seduto.

Dovrei uscire, approfittare del cielo terso che congela le valli intorno al castello e farmi una corsa come si deve, ma non ci riesco. Non riesco a far altro che stare qui, tra il portone e le scale che portano alle segrete, sperando a ogni istante che lei compaia.

Questa stupida voglia di vederla è più forte del gelo, più forte della mia volontà, più forte della consapevolezza che mi sto infilando in un ginepraio il cui risultato sarà che renderò infelice l'unico sole che illumina la mia vita.

Dovrei limitarmi a guardarla da lontano, come l'eroe tragico di un romanzo d'altri tempi, ma il mio corpo traditore non è d'accordo e il vuoto al centro del mio petto è attratto da lei come la falena dalla fiamma che la brucerà.

Quando finalmente all'ora di pranzo la vedo salire dai sotterranei, con un'adorabile aria assonnata e i capelli un po' arruffati, il buco nel mio torace si contrae dolorosamente.

"Non va bene, Draco, non va affatto bene" mi dico.

Non va bene, ma come posso non avvicinarmi, salutarla con un sorriso timido che nemmeno pensavo di avere – e che probabilmente mi fa sembrare un cretino – e soccombere al suo profumo, che mi invade le narici proiettandomi indietro di due giorni, nel mondo parallelo e rosato del bacio che ci siamo scambiati.

«Ciao, Draco, hai passato bene il giorno di Natale?»

Cerco di riscuotermi quel tanto che basta per rispondere. Mi scopro incapace della mia solita ironia.

«Più o meno. Ho passato quasi tutta la giornata col vecchio. Tu?»

Lei mi racconta brevemente come ha trascorso la giornata mentre camminiamo lungo la Sala Grande verso il tavolo degli insegnanti.

Quando cita Andromeda, qualcosa di doloroso si agita nel mio petto, un mix di rimpianto e speranza che è sempre lì, a portata di mano, quando sono con Granger. Quella sensazione si acuisce davanti all'immagine che mi si forma nella mente, quella di me e lei sul divano nel salotto di mia zia, mano nella mano. Sorridenti, felici. Insieme. Un'immagine tanto calda e luminosa quanto irrealizzabile.

Una volta seduti, lei si perde in chiacchiere con gli altri professori e io resto nel mio angolo, a contemplarla in silenzio.

Quando ho finito di mangiare, mi alzo per andarmene.

Sono già arrivato nell'ingresso quando mi raggiunge.

«Ti va di fare una passeggiata, dato che c'è il sole?»

Mi limito ad annuire, perché non posso dirle che il mio sole è sempre presente tra le mura del castello, indipendentemente dal tempo fuori.

Lei appella un pesante piumino e un buffo cappello di lana.

«Non ti copri?» mi chiede.

«No, non ne ho bisogno.»

Sussulta uscendo nel vento teso.

«Ma come fai? Si gela.»

Mi stringo nelle spalle.

Lei si fa pensosa e non dice niente per un po', mentre avanziamo fianco a fianco nella neve alta fino al ginocchio, diretti verso il lago.

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