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JIMIN‘S POV:
 


e passano così i giorni, uno dopo l’altro, non capendo cosa cazzo fare, rimanendo a sopportare tutte le volte che Yoongi sta male senza dirmi nulla. Il carico che ho sulle spalle si fa pesante, e non aiutano nemmeno un po’ la depressione e le frecciatine che mi lancia Taehyung, due cose che vanno a braccetto per portarmi ad un esaurimento.
 
Non posso smettere di pensare a quando ami il mio hyung e a quanto stia soffrendo per colpa di uno stronzo. Per fortuna per lui questa settimana non sarà a scuola perché ha le regionali di basket della scuola.

Certo, sono più che felice per lui, so bene quanto si alleni per dare il meglio di se, ma io rischio di essere ucciso, da solo, fra i corridoio di un istituto che pullula di stronzi che mi stanno alle calcagna.
 
L’ultimo suo messaggio è stato:
 
IlRgazzoInNero:
stai tranquillo coglioncello, rientro fra pochi giorni, ti amo.
08:20
 
Lo rileggo ancora e ancora durante le lezioni, come se quelle parole mi potessero dare almeno un minimo di sicurezza.

La campanella ad ogni ora non è mai tardata a suonare, è incredibile che quando vuoi che il tempo passi in fretta un secondo sembra un secolo, ma quando non vuoi che i minuti passino ogni secondo vola veloce come il vento.

E quasi sento male allo stomaco quando vedo che mancano soli cinque minuti al suono della campanella per la ricreazione.
 
Sarò solo ed indifeso in una classe praticamente vuota. Metto in pausa il telefono spegnendo il mio viso dalla luce blu che prima lo illuminava.

Incomincio a tremare appena la prof inizia a dettare i compiti da fare a casa. Sento le mani sudate e tutti rumori della classe si amplificano dentro le mie orecchie.

Dall’onda di un piccolo brusio, uno tsunami di inquinamento acustico mi invade intrusivamente la testa.
 
La campanella suona, le sedie strisciano sul pavimento facendo alzare gli studenti nella quale erano seduti. Le risate e le chiacchere escono in massa dalla classe nel giro di qualche minuto. Poi il silenzio, solo il sottofondo di quel caos riversatosi nei corridoi ora colmi di studenti.
 
Eccomi solo, seduto sulla sedia del mio stesso banco, mosso dal semplice movimento del mio cuore che mi fa portare sincronicamente il petto in avanti ad ogni suo battito, credo di poter avere un attacco cardiaco in caso vedessi solo il fottuto colore dei suoi capelli passare davanti alla mia classe.
 
5 minuti, tengo gli occhi incollati alla porta. Come un tappo l’ansia mi tappa lo stomaco bloccandomi la voglia di mangiare. Tanta gente, ma Capo Kim non è ancora passato.
 
10 minuti, mi sono spostato di un banco dietro al mio avendo paura che passando davanti alla mia classe potesse vedere che ci sia io, impaurito, che guardo il corridoio pregando non so quale dio per far sì che non passi.
 
15 minuti, altri cinque minuti e la campanella suonerà, non c’è più bisogno di preoccuparsi, ho vinto questo round, non mi ha cercato, e anche se lo facesse non entrerebbe mai in classe per toccarmi, ‘è il rischio che qualche mio compagno rientri.
 
A meno di un minuto ritorno al mio banco tirando un sospiro di sollievo, sto meglio credo, l’ho scampata e ho solo dovuto stare fermo su una sedia.
 
Depressione: a nasconderti come un coniglio.
 
Entra il prof. Choi in classe, non mi guarda nemmeno negli occhi. Come al solito sono un’ombra.
 
Jimin: annyeonghaseyo professore.
 
Prof. Choi: oh, annyeong Park, non avevo visto, dato che ci sei, vai a prendermi un caffè.
 
Avete mai sentitol’espressione:” la partita è finita quando l’arbitro fischia”? beh ecco io sì, e credo che dovrei tatuarmela in fronte dopo oggi.

Quella domanda mi ha fatto lo sgambetto da dietro spudoratamente, certo, non consapevole di starmi mandando a morte certa.
 
Park: c-caffè? N-non ho s-soldi s-scusi-
 
Ingoio ansioso un po’ di saliva sperando che abbocchi a ciò che ho appena detto.
 
Prof. Choi: vieni qui, dovrei avere qualche won, tanto alle macchinette costa poco.
 
Mi sorride facendomi l’occhiolino. Mi alzo tremante, tutti i sintomi che avevo prima si ripresentano appena sollevo il fondo schiena dalla sedia per uscire dalla classe.

Sorrido cercando di non sembrare troppo “strano”, ma molto probabilmente in questo momento sarò pallido come il latte.
 
Esco e passo in mezzo ad un afflusso di studenti che molto probabilmente stanno rientrando in classe.

Sento per l’appunto la campanella suonare e vedo i corridoi svuotarsi in mezzo a corse o semplici passeggiate per rientrare nelle proprie sezioni. Ma nessuna traccia di Kim, nemmeno l’ombra di quello stronzo.
 
Un filo di nausea mi solletica la fine della lingua ad ogni passo che faccio, ad ogni passo che mi porta lontano dal mio posto sicuro, la mia classe.

Saluto professori e bidelli che incontro durante il tragitto.
 
Jiminè tutto ok, è tutto ok, è tutto ok…
 
Mi ripeto consapevole di star dicendo la stessa bugia più volte.
 
Arrivo alle macchinette del caffè. Tremante manco alcune volte la serratura per mettere le monete, ed altrettanto scosso clicco sul pulsante per l’espresso. Scende il bicchiere.
 
Jiminokay… muoviti…
 
Incomincia a scendere pian piano del caffè caldo.
 
Jimindai…

 
E prima che il bicchiere raggiunga la metà sento una mano entrare sotto la mia maglietta e un mento posarsi nell’incavo fra la mia spalla e il mio collo. Faccio un piccolo balzo spaventato.

Sento la testa che si macchia di un panico allarmante, e i miei occhi si sbarrano insieme alle mie labbra in un’espressione consapevole di avere “perso” questa partita.
 
Capo Kim: per chi è il caffè Park?
 
Dopo questa domanda posta con dolcezza e tranquillità sento la voce del proprietario della mano che sta vagando dentro la mia maglietta.
 
Jimin: C-c-choi…
 
Capo Kim: sembri un disco rotto quando mi parli piccola palletta di riso, sei proprio uno sfigato.
 
Ho un grappo alla gola che non riesco a mandare giù, vorrei piangere ma non posso.
 
Capo Kim: mh, non è buono questo caffè, e Choi è mio amico, vieni che ti faccio vedere dove sono le macchinette nuove.
 
Ingoio e rispondo sotto voce.
 
Jimin: t-ti prego non adesso.
 
Sento mugolare da dietro le mie spalle. Appoggia il naso sul mio collo appoggiando le labbra sulla mia nuca. Sento un brivido su tutta la spina dorsale.
 
Capo Kim: stiamo violando tante regole qui Park. Sicuramente il coglione che si mette allo scoperto non sono mica io.
 
Un “bip” richiama la fine dell’erogatore del caffè. Kim mi sorride e toglie il caffè dalla macchinetta. Mi prende la mano e la porta sopra il cestino più vicino.
 
Capo Kim: e comunque non so se tu abbia ben capito, ma quello che dico io, non è discutibile. E fidati, il caffè qui fa cagare.
 
Ridacchia come se stesse dicendo cose normali da dire in una semplice conversazione.
 
Versa il caffè bollente sopra la mia mano facendolo riversare poi dentro il cestino. Trattengo un urlo di dolore, credo di avere una bruciatura sulla mano. Mi passa un tovagliolo.
 
Capo Kim: ora puliscila piccolo, che non voglio caffè sul mio cazzo.
 
Da qui ho capito i suoi fini, anche se ne ero già consapevole. È da qui che incomincio a singhiozzare con gli occhi lucidi.
 
Capo Kim: dai vieni, andiamo.
 
Prende la stessa mano bruciata e la stringe a se trascinandomi con lui verso, credo, la camera dei professori.
 
Depressione: avresti dovuto rimanere in classe.
 
Ansia: chissà cosa penserebbe Yoongi-hyung di quello che stai per fare.
 
Depressione: sei un poco di buono Park, ti fai stuprare come se nulla fosse.
 
Tutti questi pensieri mi fanno camminare alla cieca verso la camera dove Capo Kim consumerà il suo atto, sporco atto.

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