«Maia! Torna subito qui!»
Percepii le sue urla come formicolii criptici sulla pelle. Quelle parole vomitate a fatica, incastrate in gola, tuonarono con forza dirompente, spezzandomi in due. Mi seguirono su per la rampa di scale, aggrappandosi alle mie caviglie, rendendo ogni mio passo più pesante di quello precedente.
«Maia, cazzo!»
Mio padre non conosceva altro modo. Non era in grado di costruire argomentazioni articolate e convincenti. Lui era solamente in grado di separare le labbra per far scivolare la lingua biforcuta tra i denti, e per ringhiare rissoso, incontrollato, imprevedibile come lo scoppio acuto di un petardo. Lui era così, e basta. Da sempre.
«Lasciami in pace, ti ho detto!» Abbaiai io di rimando, inviperita, senza voltarmi verso la furia in giacca e cravatta che sdrucciolava insulti di gradino in gradino. I capelli parvero farsi vaporosi intorno al mio volto arrossato, come una sorta di corona color terra florida.
Spalancai la porta della mia camera con le mani che tremavano per la furia, per la paura, per la confusione, e i cardini stridettero con rabbia contro la parete su cui si piegarono.
«Finché sei in questa casa, sotto questo cazzo di tetto, sono io a decidere ciò che tu puoi o non puoi fare!» Mio padre mi raggiunse così, col collo teso e la gola graffiata, agguantandomi sgarbatamente il gomito per dare prova della sua irruenza.
«Mi hai capito?» Proseguì crudele, stringendo con forza, con la chiara intenzione di farmi male. Ad un millimetro dal mio naso, dal mio viso pallido ma risoluto - non era la prima volta che affrontavo una discussione simile, nei sette mesi di convivenza che avevamo sperimentato.
Strappai con violenza il braccio dalla sua morsa potente, da quelle dita callose che mi si aggrappavano addosso.
«Tu non mi darai mai ordini. Mai.»
Lo affrontai così, con le parole, con gli occhi taglienti troppo simili a suoi, color miele, color sole.
Mio padre, sulla soglia della stanza, si irrigidì. Una chiazza di rossore scarlatto si espanse sul suo collo corto, raggiungendo il volto butterato e sbarbato, deformato in un'espressione di puro sconcerto.
«Non stai parlando con uno qualunque dei tuoi amici. Io sono tuo padre.» Ribatté lui; guizzò sotto pelle il muscolo della sua mandibola.
Si chiamava Alex, ed era un uomo cattivo e arcigno. Un guscio vuoto, disperatamente consapevole della propria spersonalizzazione, incapace di dar ordine alle urla che rimbalzavano da una parete all'altra del suo cranio.
Non ero mai riuscita a inquadrarlo, né a percepire le sue sfumature. Era un nero profondo, nero nel nero, vittima della sua stessa voracità, preda dell'insensatezza.«Tu non hai il diritto di dirmi cosa fare. Non hai alcun potere su di me. Tu non sei mio padre! Capito? Non lo sei!» Proseguii io, intenzionata a superare il limite, convinta che toccando il fondo potessi risalire con maggiore slancio. Volevo provocarlo, volevo...volevo spingerlo oltre il baratro, guidarlo verso la totale perdizione.
Feci in tempo a fare un passo che me lo ritrovai ad un palmo dal viso.
«Non fare l'arrogante con me! Non t'azzardare, mocciosa!» Urlò così, con gli occhi spalancati per la collera, le vene a pulsare furiosamente sulle tempie, il volto una maschera di follia cieca.
Ero terrorizzata. Annientata da tutto quanto, da lui, dalle quattro pareti della mia camera che parevano restringersi ad ogni respiro. Eppure mantenni le pupille inchiodate nelle sue. Con violenza. Con ferrea convinzione. Tentavo di sottometterlo. Di valicarlo. Di calpestarlo.
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sangue nell'acqua [hs]
FanfictionHarry era questo, Harry era una carezza e uno schiaffo. Due occhi incastrati in un volto troppo cupo per meritare quella vitrea freddezza, quello scorcio di cielo gettato sul suo viso serio, distorto in un'espressione di puro sdegno per la vita - c...