Maia, ti sto supplicando

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Non riuscii a spiegarmi con quale forza Harry fosse stato in grado di trascinarmi in camera propria con una spalla lussata e membra in via di guarigione. Nonostante l'infinita rampa di scale percorsa e le moine stridule che la accompagnarono, la sua stretta non si allentò minimamente, mai, neppure un istante; anzi, si fece più intensa e dolorosa ad ogni mio gemito di fastidio.

L'unica parte del corpo che mi fosse concessa muovere erano le gambe, e queste scalciavano disperatamente nel vuoto, tuttavia senza neppure riuscire a sfiorare il pavimento.
Colpivano alla cieca, urtavano con veemenza le caviglie di Harry, i suoi stinchi robusti, non smorzando nemmeno il suo andamento risoluto nonostante la ferocia con cui intendevano porre fine a quella scalata verso la perdita di ogni inibizione.

«Perché non puoi lasciarmi andare? Basta, basta! Non voglio salire! Non voglio salire!» continuavo a piagnucolare, con quel poco di speranza e adrenalina che mi pulsava in corpo.

Ero un fascio di nervi.

Harry si trattenne a malapena dal ringhiare. Potevo percepire chiaramente il profilo del suo volto bollente sfiorarmi l'incavo tra collo e spalla, il suo respiro affannoso contro l'orecchio, a scompigliarmi i capelli. Il suo calore ovunque. Le sue braccia attorno al mio corpo, forti; il suo costato una gabbia di ossa contro la mia schiena inarcata.

Era uno stimolo incosciente, che neppure io riuscivo a definire, ma il fatto stesso di percepirlo su ogni centimetro di pelle mi riempiva di un'energia particolare, un abbandono passionale alla rabbia e al dolore.

Quell'energia si chiamava amore. Avevo già fatto la sua conoscenza, ma in quegli istanti di cecità emotiva ancora cercavo di rifiutarla, di rivolgerle le spalle: il bisogno disperato di rifugiarmi nel mio dolore era più forte, era viscerale e totalizzante.

E dunque mi dimenavo, gridavo all'estremo delle mie forze nell'illusione che esistesse qualcuno, chiunque, pronto ad intervenire.

Tuttavia la mia stessa speranza mi si ritorse contro, e in un battito di ciglia mi sentii scagliare sul pavimento della sua stanza, e udii il tonfo sordo di una porta chiudersi alle nostre spalle.

Mi voltai con gli occhi che ancora bruciavano di pianto e  «Cosa diavolo credi di fare? Fammi uscire immediatamente!» sbraitai, barcollando sulle ginocchia nel tentativo di tirarmi in piedi.

Il volto di Harry pareva inciso nel marmo. I suoi lineamenti erano immobili, fissati in un'espressione indecifrabile, ma il peso del suo sguardo rischiava di farmi vacillare più di quanto fossi disposta ad ammettere.

Dopo quel mio primo tentativo di intimidirlo, la stanza piombò nel silenzio. Rimasi immobile al centro della camera con gli occhi puntati altrove, percependo le sclere di Harry inchiodate sul mio volto. Un attimo dopo, quasi scattai nella sua direzione «lasciami uscire di qui» utilizzando tuttavia un tono quantomeno controllato per convincerlo a liberarmi.

Ma lui «no» replicò stoico, fulminandomi con uno sguardo pregno di risentimento «nessuno dei due uscirà da questa stanza finché non ti sarai calmata.»

«Io sono calma!» gridai, e la rabbia tornò ad incendiarmi tutta insieme, e le lacrime bruciarono sulle mie guance in fiamme.

Mi scagliai su di lui, mi aggrappai alle sue spalle tentando di spingerlo di via, di scavalcarlo, approfittando senza vergogna delle sue critiche condizioni di salute. Me ne vergognai, ma la sua forza vinse la mia e mi scagliò nuovamente con sgarbo lontano da sè.

Arrancai disperatamente ma persi l'equilibrio, senza riuscire ad impedirmi di cadere contro il comodino alle mie spalle: questo si rovesciò a terra, e le mie ginocchia cozzarono dolorosamente tra di loro mentre la piccola abat-jour si infranse in mille pezzi contro il pavimento.

sangue nell'acqua [hs]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora