Che ci fai ancora qui?

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Quel pomeriggio segnò una svolta a mio favore (o quasi).

Innanzitutto accettai la proposta di Tom. Avida. Perché avrei desiderato rifiutare per garbo e dignità, ma le strade di Tadcaster si erano ingoiate entrambe le cose. E perché io, là fuori, da sola, non ci volevo tornare - c'era in ballo la mia sopravvivenza. La mia...vita.

E, in secondo luogo, Harry Styles si rivelò essere il più bastardo degli stronzi. Ma prima, qualche ora prima, c'ero ancora io, che ringraziavo suo padre Tom per il tetto che mi aveva piantato sopra la testa.

Neanche sapevo di cosa mi sarei occupata, quando avrei cominciato, e se sarei stata in grado di restare - ché neppure lì trovavo pace. Il chaos non era fuori ma dentro di me, latente, in attesa di esplodere. E io lo affogavo nella speranza di potercela fare, di dovercela fare, con Tom che sorrideva e mi guidava contro il suo petto in un abbraccio che gridava dolore e medicina.

«Non ti deluderò.» sussurrai ad occhi chiusi. Tom mi strinse una spalla, forse convinto che parlassi con lui, quando in realtà mi stavo rivolgendo a Maia Dekker. A me stessa. A quella ragazza che aveva perso tutto, che aveva le mani piene di niente, ma che grattava testarda, che affondava le unghie nei palmi per non cadere. Non cadere, Maia, ti prego...non cadere.

I miei nervi stridevano. Non puoi cadere. Non devi.

«Non ti deluderò, lo prometto.» ripetei a voce bassa, stringendo la presa convulsamente attorno all'uomo che mi aveva accolta senza conoscere la mia storia.

Perché è questo che fanno le persone buone. Loro aprono le braccia senza paura di venire pugnalate, loro sorridono attraverso gli occhi lucidi, loro hanno le mani pulite e il volto come lo specchio del cielo - sono limpide, le persone buone, e profumano di casa.

Tom era buono...Tom era l'uomo più buono che io avessi conosciuto. Percepiva il mio dolore...poteva toccare la paura che mi intirizziva le ossa, ma custodiva tutto nel silenzio dei suoi sguardi. In quel momento, compresi di poter dare a Tom la fiducia che non avevo mai riservato a mio padre.

E a proposito di lui...Alexander Dekker mi chiamò, quel pomeriggio, e io accolsi coraggio a sufficienza per rispondergli.

«Pronto?» pigolai, seduta sul bordo del letto, coi capelli ad avvolgermi le spalle tese.

«Maia.»

E lì, esattamente in quel momento, in quel minuscolo frangente di infinito, giurai di aver sentito un brivido scavarmi la spina dorsale. Perché papà aveva usato quel tono di voce, quel tono che incuterebbe terrore a chiunque, quel tono che sibila minaccia. E vendetta.

Rimasi in silenzio. Poi deglutii. Potevo avvertire distintamente il mio cuore gonfiarsi di sangue vivo e poi contrarsi in modo spasmodico, convulso, terrorizzato, svuotandosi e accartocciandosi su se stesso. E poi gonfiarsi di nuovo. Tum. Respiro. Tum. Tum.

«Alexander.»

Gli avevo appena lanciato una sfida...non lo chiamavo papà da anni, ma non mi ero mai azzardata a pronunciare il suo nome intero con tale saccenza e arroganza.

Ero stata...strafottente.

«Sei sparita da giorni, tesoro.» modulò lentamente, cosicché potesse farmi distinguere ogni singola parola. «E non rispondi al telefono.»

«Adesso ho risposto.»

E io ero così...io ero tremendamente insicura, al punto da nascondere la paura e il disagio sotto una coltre di rabbia, e artigli, e denti, e maleducazione.

«Maia.» ripeté. «Maia.»

«Io non tornerò a casa.»

«Oh, invece lo farai. Lo farai eccome.»

sangue nell'acqua [hs]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora