Pavor Nocturnus

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Nei miei sogni riemersero i contorni di quel ricordo. Concreti, palpabili, taglienti - carta vetrata sulla carne viva.

Si mescevano ai colori cupi di una notte che non avrei mai dimenticato, il cielo plumbeo, statico, l'aria umida, e alle sensazioni che la mia pelle si portava addosso come un marchio indelebile.

Quella sera, mentre il sonno mi trascinava pacato al limite dell'incoscienza, la dimensione onirica in cui andavo sprofondando si tinse del colore del sangue.

La realtà era che non sarei mai riuscita a sfuggire ai demoni del mio passato, perché li avevo portati via con me, dentro di me, incisi nella mia psiche in punta di pugnale.

Io, ancora...ricordavo.
Ricordavo ogni istante, ogni immagine di quella tragedia maledetta.

Io...ricordavo.
Me la ricordavo, quella notte - era marzo, e la zia Fanny era venuta a dormire con noi, con me e mamma, per riempire quella casa vuota come lo stomaco di un serpente. Quella sera, io avevo augurato la buonanotte ad entrambe. Ricordavo.

Parole che si riaffacciarono nei miei sogni, vibranti come fossero reali.

«Notte, zia» e lei aveva risposto con un bacio su entrambe le guance, una carezza sulla seta dei capelli. Mi aveva sorriso, tiepida, ritirandosi nella camera degli ospiti. Capitava spesso, infatti, che la zia Fanny venisse a fare compagnia a sua sorella e a sua nipote, nella speranza di alleviare il tormento di una separazione coniugale in corso.

I miei genitori si erano allontanati ben prima. Ma la situazione in tribunale era altalenante, e quella guerra silenziosa si portava i propri strascichi in casa nostra, sebbene mio padre fosse già da tempo ritornato nella propria terra natìa: l'Inghilterra.

Mamma...soffriva molto. Ma era furba, lei, e riusciva a non farmi notare quando il panico rischiava di mandarla in frantumi, o quante sigarette si fumasse al giorno, o di come la depressione le stesse sbriciolando le ossa.

Ero cieca, inibita. Ero solo una ragazzina.

Nel mio sogno emersero gli spigoli della mia camera da letto. Tra quelle pareti mi muovevo pacata, serena, perché avevo salutato mamma con un bacio frettoloso, come d'abitudine, e lei mi aveva augurato una buona notte. Era ancora in salotto - voleva dare una spolverata ai mobili, diceva; voleva lucidare il vetro delle finestre.

Ricordavo. Ricordavo vividamente la sensazione di pace con cui mi ero abbandonata contro il materasso, l'abat-jour spenta, la televisione accesa dall'altra parte del corridoio. Tutto era al proprio posto.

Tutto andava bene.

Ma si trattò solo di attimi a viversi, dopo. E fu tutto così veloce, tutto così rapido, che la mia mente impreparata non riuscì a recepire la vicenda nella propria interezza. C'erano solo...sprazzi, scatti improvvisi, immagini spaccate dal tumulto inarrestabile del mio panico.

Erano state le grida di zia Fanny a svegliarmi, inserendosi lascive nel mio sonno - singhiozzi e nenie sussurrate, passi frettolosi, e tanto panico, arsenico letale, improvviso,

mortale; e io avevo aperto gli occhi di schianto, il cuore congelato, silenzioso, immobile nel costato.

Da quel momento in poi non fu la mia mente a guidarmi, ma il terrore.

Avevo acceso la luce, azzannata dalla confusione, e i miei piedi avevano scostato le lenzuola con calci frettolosi... e io lì, fragile e tremante come un gatto bagnato, di fianco al letto...mi ero bloccata, e improvvisamente avevo appurato di aver capito.

Avevo capito, senza neppure rendermene conto.

Perché quando zia Fanny, spalancando la porta della mia camera, mi aveva trovata già in piedi, aveva scorto sulla mia pelle la tacita disperazione di chi è conscio di aver perso tutto.

sangue nell'acqua [hs]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora