Troppo soli

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Il trentenne in questione si chiamava Oliver Douglas. Fu lui a presentarsi, quando, con Harry che mi osservava con occhi di fuoco, mi ero nuovamente avvicinata al suo tavolo, portando con me una bottiglia fresca di Blonde Ale.

Lo avevo fatto per sfidarlo, fondamentalmente, ché abbattuto l'alone di imbarazzo e diffidenza dei primi momenti, una tensione stridente si era inserita tra i nostri sguardi in battaglia. Tra me e Harry era una sfida continua. Un costante volersi prevalicare.

Ebbi una conversazione al riguardo con Jake, proprio qualche giorno dopo. E, tra una cosa e l'altra, riuscii a cogliere qualche indizio circa Oliver Douglas.

Non era una brava persona. Era stato molto vago, ma quando avevo pronunciato quel nome, Jake mi aveva osservata in viso un secondo di troppo, come per sondare le mie emozioni al riguardo.

Poi mi aveva fatto una domanda.
«Ti ha detto qualcosa di strano?»

«No.» avevo sussurrato io, seduta sul bordo del mio letto. «Perché?»

«Se vuoi un suggerimento da amico....stagli alla larga.»

Un consiglio fornito da Jake era molto diverso da un ordine impartito da Harry. Perché Jake non parlava per arroganza, strafottenza e tracotanza, ma soppesava le parole con attenzione, attento a non sferrare colpi troppo bassi.
Dunque mi sentii vibrare di un sospiro trattenuto.

«Perché me lo dici?»

Lui, dall'altro lato della stanza, mi guardò con occhi trasparenti. Poggiato alla parete, col capo inclinato e la fronte coperta da pochi ciuffi scuri.

«Non potrei dirtelo, e quindi non te lo dirò. Sappi che non è un tipo proprio apposto con la testa.» Attese un momento. «Non si è comportato bene, in passato. In particolare con le ragazze.»

La conversazione terminò lì, con quell'affermazione ad aleggiare tra i nostri corpi tesi. Non era sufficiente dicesse altro: Oliver costituiva per me un pericolo, e d'improvviso mi sentii un'idiota.

Perché Harry si era comportato da stronzo, ma in fondo il fine che intendeva perseguire gli rendeva onore, e ciò mi portò a domandarmi per l'ennesima volta quale fosse la ragione che lo spingeva a trattarmi come un ospite indesiderato quando, in realtà, non faceva altro che tirarmi fuori da situazioni sgradevoli.

Quindi mi passò per la mente di scusarmi, ma soppesai quell'idea a lungo: perché avrei dovuto farlo? Gli sarebbe bastato avvertirmi del pericolo invece che trattarmi come una bambola di pezza.

Ché Harry aveva il vizio di voler dominare, di impartire ordini, di sibilare minacce velenose, e di usare le mani per plasmare le menti di chi gli rivolgeva la parola, e gli occhi per spaccare il volto di chi osava guardarlo troppo a lungo.

Poi allontanai tutto da me e mi gettai a capofitto a lavoro. L'impacciataggine e la timidezza ancora contaminavano la mia voce tremula, ma giorno dopo giorno le mie spalle si facevano meno arcuate, le mie mani più sicure, e i miei occhi meno sfuggenti.

Dunque, un fresco pomeriggio autunnale, Tom Styles mi si avvicinò indaffarato, in attesa del flusso di clienti che il Red Lion avrebbe ospitato di lì a poco. Aveva il volto un poco corrucciato e le mani avvolte attorno a un vassoio vuoto, pronto per essere utilizzato.

«Maia,» mormorò, «avrei bisogno di un piccolo favore.»

«Certo» risposi io, scendendo dallo sgabello e tornando coi piedi per terra. Lo guardai attentamente, giocando con una ciocca di capelli sfuggita alla treccia che si posava delicata sulla mia spalla sinistra.

«Ho bisogno di una cassa di birre. Le tengo in magazzino, ti ricordi? Di fianco alla mia stanza.»

«Torno in un secondo.»

sangue nell'acqua [hs]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora