Non parlare con lui

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Così trascorsero altre ventiquattro ore. Scapparono via, scivolando dai miei palmi tremuli senza che avessi il tempo di riacciuffarle.

Conobbi Jenna e Grace. Strinsi la mano alla prima, alla ragazza coi capelli corti e il sorriso storto, un po' stranito, un po' finto - di circostanza. E lei si presentò, occhi assottigliati e spalle tese, sguardo felino, quello di chi ti guarda senza inquadrarti.

Non gliene facevo una colpa...avevo quel vizio maledetto di apparire distante, quasi intoccabile, coi miei occhi grandi quanto una stanza ma profondi e attenti, che mai si lasciavano sfuggire un minimo dettaglio. Osservavo Jenna, e poi guardavo Grace in volto, e stoicamente pronunciavo ancora il mio nome: Maia, Maia, piacere di conoscerti.

Ma la mia mano era rigida, umida di tensione, a tratti insicura, e il mio volto appariva come la prova tangibile di quel disagio. Mi sentivo...di troppo. Loro mi guardavano come se fossi un ospite indesiderato, come la pecora nera che per una vita avevo creduto di essere.

Eppure sorrisi comunque. Sollevai gli angoli delle labbra a entrambe, e il mio volto un poco si distese, e quel cruccio che mi rendeva spigolosi i lineamenti lasciò spazio ad una piccola smorfia luminosa.

Non importava...non mi importava di niente. La discordia che leggevo negli occhi di Jenna, la pena che Grace lasciava trasparire, l'odio che Harry nutriva nei miei confronti. Nulla di tutto ciò mi avrebbe toccata. Non avrebbe dovuto toccarmi. Eppure mi graffiava la bocca e il cuore...quel sentirmi indesiderata mi prendeva a pugni ogni secondo, ogni attimo che incrociavo lo sguardo di Harry, o quello delle ragazze, o il mio, riflesso in uno specchio.

Poi accantonai tutto. Lo nascosi in tasca, e mi gettai tra le braccia della mia nuova vita.

Quel giorno avrei iniziato a lavorare per il Red Lion. Ma, dal momento che non avevo alcuna esperienza in campo lavorativo (o sociale) già credevo di fallire ancor prima di cominciare. Innanzitutto conobbi gli altri tre dipendenti: Abbie, Thomas e Michael - meglio conosciuto come Mike. Tutti alla mano, tutti più grandi di me. Eppure, anche nei loro occhi occhi amichevoli leggevo una punta di malizia, di curiosità famelica, perché il dubbio li grattava avido: si chiedevano chi fossi e perché mi trovassi lì.

Non avevo ricevuto un contratto di lavoro, né avevo fornito un curriculum al datore, e a malapena ero maggiorenne, e già alloggiavo con la famiglia Styles.

Inoltre, presto avrei scoperto che il Red Lion era molto più di un semplice locale notturno, e che nascondeva un'ombra viscerale - ma in quel momento ero ancora lì, appoggiata al bancone, di fianco a Thomas, e guardavo curiosamente le sue mani abili a lavoro.

«Quindi tu prepari gli alcolici?» domandai a bassa voce. Lui annuì senza guardarmi, ché mancavano pochi minuti all'apertura, e già avevo lo stomaco in subbuglio.

«È Mike a darmi una mano, il più delle volte. Abbie invece si occupa del servizio al tavolo. In effetti abbiamo seriamente bisogno di una mano in più.» e sorrise sotto i baffi, guardandomi di sottecchi. Sembrava divertito dal mio disagio, ma cercava di non farmelo pesare.

«E chi di voi sta alla cassa?»

«Oh, quello è Tom. Ma siamo tutti molto versatili.» attese un secondo, poi: «non preoccuparti. Tutti all'inizio siamo un po' impacciati.»

«Io sarò un totale disastro.» ammisi, e guardai altrove. Improvvisamente i miei piedi che penzolavano nel vuoto parvero farsi molto interessanti.
«Già mi vedo a rovesciare qualcosa, oppure a sbagliare un ordine, o a fare la figura della cretina.»

«Non essere così dura con te stessa.» rispose. «Le persone non sono tutte così giudiziose.»

«Non so rapportarmi con gli altri. Ho sempre paura che pensino che io sia stupida...o qualcosa del genere.»

sangue nell'acqua [hs]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora