Jenna

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Le mie supposizioni si erano rivelate affidabili: ci trovarono appena venti minuti dopo, accasciati contro le due pareti opposte del magazzino; era stato necessario l'intervento di un fabbro, ché la serratura della porta poteva dirsi andata a puttane.

Sembrava uno scherzo del destino, un dispettoso intreccio di eventi fortuiti: come se fosse scritto che io ed Harry dovessimo restare intrappolati in gabbia come topi, come se io dovessi scoprire che Harry, di fatto, era claustrofobico.

Niente di più e niente di meno. Non ebbe neanche bisogno di dirmelo, perché il costante affanno e il terrificante sussultio del suo petto parlavano da sé.

Lo guardavo da lontano, senza fiato, con le spalle premute al muro: oh, come avrei voluto lenire il dolore di quel povero cuore selvaggio, come avrei voluto aiutarlo! Nonostante gli screzi e le antipatie, non potevo certo dire di odiarlo.

Eppure non ebbi il coraggio di aprir bocca, temendo di suscitare in lui una reazione incontrollata: lo lasciai crogiolarsi nella propria disperazione accecante, abbattuto contro la parete, con le mani tra i capelli e la schiena arcuata dalla tensione nervosa che gli attraversava la spina dorsale.

Quando fummo liberati non mi degnò di uno sguardo, ma limitandosi a superare il padre con una leggera spallata, mi lasciò lì da sola, col cuore stretto tra le mani e il segreto di quell'incontro custodito nei miei occhi in tempesta.

Non c'era niente al mondo che io desiderassi più di capirlo, di comprenderlo tanto a fondo da scoprire perché si ostinasse ad annazzarmi ogni qualvolta ne avesse l'opportunità.

Era dilaniante essere sbattuta in una vita a me estranea e pretendere che me la sentissi perfetta addosso, e la consapevolezza di essere indesiderata e mal voluta mi portò, più di una volta quella giornata, a domandarmi se volessi restare.

Non riuscivo a trovare pace...a ritagliare uno stralcio d'infinito e stringermelo al petto come un piccolo bocciolo di luce in grado di spazzare via le tenebre che mi scivolavano addosso languidamente. Queste mi abbracciavo voluttuose, sensuali, sibilanti come serpenti...giù, ancora più in basso, oltre il fondale, nel punto in cui diventa impossibile risalire.

La mia più grande paura si era materializzata pezzo dopo pezzo di fronte al mio sguardo incantato: addio mamma, addio America, addio vita di sempre, benvenuto padre, benvenuta disperazione (addio Maia!)

Le mie giornate successive si macchiarono di sconsolatezza. Harry mi evitava come fossi un'appestata, limitandosi a sporadiche occhiate curiose nella mia direzione: la sera indossavo il migliore dei sorrisi e le vesti di un'umile cameriera, e ignoravo il suo sguardo puntiglioso sulle ginocchia, sui polsi e sulle gote.

Ero questo per lui? Un raggio luminoso, bello e incantevole finché non ti è vicino tanto da accecarti?
Giocai la carta dell'indifferenza ed evitai i suoi occhi profondi per un paio di giorni. Poi la tensione si crepò come un muro di cristallo, e la fine di ottobre trascinò con sé forti raffiche di vento, foglie secche, alberi spogli e cieli notturni: il weekend era alle porte, e avrebbe fatto strada alla festività che più di tutte inglesi e americani amavano celebrare.

«Maia, venerdì sera ti porto con me a una festa.»

Aveva esordito così, il caro e docile Jake, gomiti contro il bancone e volto radioso come un bocciolo in fiore.
Al che io risposi con un'indifferente scrollata di spalle, celando l'improvviso nervosismo dietro occhi bassi e volto inespressivo: festa.

In vita mia non avevo mai partecipato a quella che i ragazzi di oggi definiscono festa: le mie tendenze ombrose e solitarie mi spingevano a tenermi distante da luoghi affollati e rumorosi, e dunque mi ripiegavo tra le braccia di una stretta cerchia di conoscenti.

sangue nell'acqua [hs]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora