Cento cappi di spine

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La tensione dei miei nervi era tanto intensa da causare bruciore.
Pareva stillasse veleno, goccia dopo goccia, trascinandomi indomita in una spirale di follia e disincanto che non avrebbe potuto ammansirmi senza spezzarmi in due.

Due ore dopo l'accaduto...ancora mi sentivo sospesa tra realtà e immaginazione. Vagavo nella foschia di quella dimensione senza scorgere un inizio o una fine allo scempio della mia disperazione, e non riuscivo a comprendere le parole di chi mi si rivolgeva con tanta premura, sebbene le percepissi nella loro interezza.

Perchè non ero sola in quella stanza, ma il vuoto che sentivo crescere dentro di me non avrebbero potuto colmarlo Jake o Steve, e nemmeno Grace, di fianco a Jenna, vestita di un silenzio cupo e folgorante.

Erano tutti giunti al Red Lion subito dopo il frettoloso trasporto di Harry in ospedale. Tom aveva seguito il figlio in quel viaggio alla cieca, voltando la spalle alla mia necessità di stringere la mano al ragazzo che amavo tanto disperatamente. Eppure sapevo che non avrei mai potuto biasimarlo - il terrore di quegli attimi di incertezza aveva affilato il suo sguardo e avvelenato il suo buon animo, trasformandolo in un fascio di nervi e spine che pungevano, sottili e insidiose, grattando piano le corde del cuore.

Il locale era stato immediatamente chiuso. I curiosi erano stati allontanati e rassicurati dalla voce ferma di Jake, che tuttavia tratteneva il panico premente nella tensione delle proprie spalle. I suoi occhi parevano storditi, ammantati di un languore inconsapevole - e se non lo avessi conosciuto avrei avanzato l'ipotesi che fosse confuso, o sconvolto da quanto accaduto, quando in realtà Jake Milligan stava soltanto coltivando dentro di sè un furore nero e viscerale.

Era lo stesso stordimento che sentivo dibattersi nelle mie vene. Una confusione che nasceva dal bisogno di non cedere al reale, al vero, una cancrena inarrestabile e fagocitante.

Di fronte a me, Steve era preda di un nervosismo mordente. A differenza di noialtri, sparsi come biglie immobili sugli scalini lignei del locale, lui pareva non riuscire a restar fermo, e con le mani ficcate in tasca continuava a ripercorrere lo stesso tratto di pavimento che aveva calpestato frettolosamente fino ad un attimo prima.

«Quanto è passato?» domandò con voce cavernosa, carica di stizza, rivolgendosi a Grace. Lei gettò uno sguardo distratto allo schermo del proprio cellulare.

«Quasi tre ore, ormai.»

Era notte inoltrata. Oltre le pareti che ci si sbriciolavano attorno il mondo aveva smesso di ruotare e si era abbandonato ad un'estatica contemplazione della luna, silenziosa spettatrice delle disgrazie umane.

«Se avete sonno potete tornare a casa.» intervenne Jake, stravaccato al mio fianco col capo rovesciato contro la parete. «Resterò io con Maia.»

Quella del suo sguardo era un'agonia spietata che mi ricordò quanto disperatamente stessi tentando di non crollare; e nonostante tutto dentro di me gridasse tanto rabbiosamente da sanguinare, non una parola vinse lo scudo delle mie labbra. Impressa nelle mie retine vi era l'immagine del corpo di Harry piegato contro il cemento, e quella degli occhi di mamma, teatri di perdizione che non avrei mai dimenticato.

Due istanti immobili e fragili nella propria finitezza, inconsapevoli e distruttivi come soltanto la morte e la solitudine sanno essere.

«Cosa? Ma non scherziamo.» squittì Grace, evidentemente inquieta. «Non riuscirei a dormire neppure se volessi.»

Ero l'unica a non essersi ancora pronunciata. Me ne stavo lì, minuta su quel vecchio gradino, col capo nascosto tra le ginocchia. Avvertivo a stento il calore della mano di Jake sulla mia schiena, tra le scapole, a vestirmi di un conforto che non sarebbe mai riuscito a riparare la devastazione della mia anima in fiamme.

sangue nell'acqua [hs]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora