Capitolo 11: 𝑺𝒖𝒑𝒆𝒓𝒃𝒊𝒂.

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Avanti e indietro, di nuovo. Avanti e indietro. L'atrio non mi era mai sembrato tanto piccolo e soffocante. Mi strinsi le spalle, cercando di trattenere il tremore del mio corpo. Stephen si avvicinò, come se volesse calmarmi, ma io lo respinsi.

«Stammi lontano» lo avvertii, salendo di un gradino.

Lo odiavo. Era stato lui a portarmi via con facilità e sul suo volto non colsi alcun rimorso, né alcun tipo di emozione. I suoi occhi erano vuoti.

Non potevo vedere o sapere cosa stesse succedendo in quella stanza, un ignoto che mi terrorizzava. Guardai la porta della Sala d'Oro e scesi il gradino. Stephen mi coprì la visuale, mettendosi davanti a me.

«Togliti.»

L'apatia dei suoi occhi si puntò su di me, mi ammonì di stare ferma. Avrei voluto gridargli di lasciarmi in pace e di smetterla di mettersi in mezzo. Come poteva restare calmo?

«Devo rientrare» gli spiegai, cercando di superarlo. Stephen si rifiutò ancora di darmi retta e, ricordandomi ancora una volta quanto insignificantemente più debole di lui fossi, mi afferrò e mi costrinse a ritornare sulle scale. Mi dimenai, infilzandogli le unghie nella carne delle braccia. Stephen grugnì, lamentandosi per il dolore, e mi lasciò andare di botto. Caddi col culo sullo scalino. Una fitta di dolore mi accecò quando colpii il gomito contro il marmo. Il dolore restò solo un attimo, subito cedendo il posto alla vera padrona del mio animo: la paura.

Tornai in piedi, pronta a farmi largo tra chiunque si fosse mezzo tra me e Ginevra.

«Che cazzo fai?», gli urlò Neels, raggiungendoci e costringendo Stephen ad allontanarsi da me.

Stephen restò in silenzio, ma nel suo volto vidi farsi largo la rabbia e il ribrezzo. Ecco le vere emozioni che stava cercando di trattenere. Era quello lo sguardo a cui ero abituata.

L'immagine della schiena martoriata di Mariano mi riempì la mente come un flash. Nonostante quando era successo ero molto piccola, quella visione mi era rimasta impressa. Suo padre lo aveva punito violentemente, giustificando le proprie azioni come corrette. Lo aveva frustrato con la sua cintura. Mariano si era morso la lingua e non aveva gridato.

Il terrore e la consapevolezza che quell'evento stesse per ripetersi mi bruciarono gli occhi.

Ginevra era solo una ragazzina, fragile fisicamente, persino più di me. Non si sarebbe potuta difendere.

Dovevo cercare aiuto.

Guardai il mio telefono, stretto in una mano tremante, e accessi lo schermo. Digitai il numero della polizia, fermandomi prima di chiamare. Avevo sempre sospettato che quella famiglia, e in generale la comunità neomida, avesse delle conoscenza nella polizia che permettevano loro di controllarla. Mi avrebbero ascoltata? La risposta mi deluse. Chiamando quel numero non sarei mai riuscita a salvare Ginevra, nessuno sarebbe venuto in nostro soccorso. Nessuna macchina della polizia avrebbe mai superato il cancello di Villa Nobili.

«Che stai facendo?» Stephen fissò me e poi il mio telefono. Con uno strattone si liberò di Neels e mi venne incontro. Indietreggiai spaventata dall'odio che mi stava puntando addosso. In quel momento, pensai che sarebbe stato in grado di fare qualunque cosa pur di fermarmi.

«Dammi il tuo telefono» ordinò, porgendomi una mano. Tenni l'apparecchio saldo tra le mie dita. Stephen fece una smorfia, infastidito, e mi sottrasse l'oggetto.

Neels lo fulminò con lo sguardo, ma Stephen continuò a non degnarlo di attenzione. Controllò il mio telefono, scoprendo chi avevo voluto chiamare e rise. «Credi davvero che ci avrebbero aiutati?» mi schernì. Spense l'apparecchio e se lo mise in tasca. «Questo lo tengo io.»

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